15 Febbraio 2023

Dakar, Jader Giraldi: “Un’esperienza nella gestione dell’inaspettato”

Jader Giraldi è uno degli esordienti italiani al traguardo nella Dakar 2023. Un progetto con un doppio scopo: la nostra intervista.

jader giraldi, dakar

Esordiente assoluto alla Dakar, ma è giunto al traguardo. Jader Giraldi, faentino classe 1972, ha completato un progetto iniziato anni fa, il cui obiettivo era “Portare a casa la pellaccia e divertirsi”, come ha sottolineato scherzando. Missione compiuta sul lato della competizione, ma anche a livello di ricerca antropologica, visto che la sua Dakar aveva un doppio scopo. “Dealing With The Unexpected” non è solo il nome del suo profilo social, ma è proprio il suo progetto. Abbiamo avuto l’occasione di fare due chiacchiere con Giraldi per farcelo raccontare, la nostra intervista.

Hai appena completato la tua prima Dakar, com’è andata?

Direi al di sopra delle mie aspettative, è stata davvero una bella esperienza. Ho ripreso a fare seriamente fuoristrada da due anni, quindi era un progetto sul quale ho lavorato molto. Ero pronto anche a non finirla sostanzialmente!

Da dove parte il progetto Dakar?

Penso sia il sogno nel cassetto di ogni fuoristradista. Due anni fa, complice anche il Covid, mi sono trovato con un po’ di energie e di tempo in più a disposizione. Per gestire anche lo stress del periodo ho deciso di darmi una sfida importante e ho iniziato quindi a lavorarci. Ho costruito un progetto legato anche al mio lavoro, visto che sono un consulente aziendale: l’ho chiamato “Dealing With The Unexpected”. Non possiamo avere la presunzione che nella vita non ci possano essere sorprese ed in quei casi bisogna attivare il meglio di sé. Era quasi come una ricerca antropologica, ho pensato quindi a come potevo lavorarci su. Ho messo insieme una ricerca ad un desiderio: la Dakar è un’esperienza che inevitabilmente ti porta sempre a gestire situazioni inaspettate, qualunque sia la tua preparazione. La differenza la fa la capacità della tua mente di gestire uno scenario imprevisto.

Hai preso la decisione, come ha reagito chi ti sta intorno?

Quando uno dice che vuole fare una cosa del genere, di solito nessuno gli crede. Gli invidiosi iniziano poi a boicottarti, raccontandoti le sfighe a cui andrai incontro e demolendo il tuo progetto. Ma mano a mano che ci lavori e le persone vedono che ti stai impegnando, subentra il rispetto. Questo lo chiamo il potere del fare: tu puoi dichiarare tante cose, ma se inizi a fare tutti i giorni poi prende una sua legittimità. Dobbiamo essere noi ad educare chi è intorno a noi a rispettare ciò che facciamo, semplicemente perché lo facciamo con serietà.

Hai ricominciato a correre due anni fa, ma per gli inizi bisogna andare molto più lontano.

Diciamo che sono il classico endurista che ha fatto gare regionali senza particolari risultati, con esperienza poi anche di trial e di guida tecnica. Facevo enduro, mi sono fermato dai 26 ai 44 anni per ragioni di famiglia e professionali, poi ho ripreso. Due anni fa mi ha ispirato Tiziano Internò, era una cosa bella e possibile per come lui la raccontava. Un po’ come uno spacciatore di sogni ho preso la pillola sbagliata, ho iniziato a seguire le sue gesta e mi sono fatto consigliare molto: per la Road to Dakar ho corso in Andalucia e Marocco.

Ma non ti hanno preso subito.

Nel 2021 non mi hanno preso, non reputavano che avessi una velocità importante. All’inizio mi sono arrabbiato, col sennò di poi credo avessero ragione. Ho ripreso subito ad allenarmi, ho deciso di affrontare l’Abu Dhabi Desert, facendo prima un bel po’ di allenamento nelle dune. Sono andato quindi al Abu Dhabi Desert e ho visto lo scenario del Empty Quarter, che era parte della seconda settimana della Dakar di quest’anno. Ho fatto un po’ fatica nei primi giorni, ma poi ho capito e migliorato la mia tecnica di guida, arrivando alla fine a fare anche tempi molto buoni. A luglio hanno deciso di prendermi. Di base, come preparazione tecnica, la parte enduristica l’avevo già fatta e la parte della sabbia l’avevo comunque ben approfondita. Tutto sommato ho fatto la Dakar con abbastanza semplicità.

Paolo Lucci ci ha detto che la tua Dakar conclusa era una grande soddisfazione anche per lui.

È un grande amico e professionista: ci siamo allenati tantissimo insieme, siamo andati diverse volte nelle dune. Ci siamo dati anche molti consigli a vicenda, lui soprattutto dal punto di vista motociclistico ed io per altre cose. Lui e Jacopo Cerruti sono stati i piloti che mi hanno aiutato tanto a capire: Jacopo più riguardo la navigazione, Paolo invece per aumentare la velocità e migliorare la tecnica di guida. Si impara tanto anche solo osservando.

Inizia la corsa, quali sono state le prime impressioni?

Una grande emozione già al prologo, quando sono salito su quel palco. Ci sono tante gare di rally, ma quella è una corsa che ha un vestito di contorno… Anche solo per il giro di persone e l’imponenza che ha. Poi simbolicamente è venuta fuori anche tutta l’emozione data dai sacrifici personali che hai fatto per essere lì: quella era la sintesi di tutto.

Si comincia poi a fare sul serio.

Devo dire che nei primi giorni avevo molta paura di buttare all’aria tutto, anche perché tra prologo e shakedown avevamo già perso 7-8 piloti. Sono partito molto lento, prima giornata tranquilla in cui mi facevo anche passare, mi dicevo che tanto la gara era lunga. Effettivamente, se arrivi in fondo, ogni giorno guadagni 7-8 posizioni, vale a dire più o meno il numero di piloti che si ritira per guasti tecnici od altre ragioni. Il primo giorno poi Tiziano s’è fatto male, quindi subito un grande dispiacere.

Ma arriva presto l’imprevisto.

Nel secondo giorno mi aveva chiesto di proseguire un po’ nel suo racconto, ma è stata una tappa durissima. Dopo 20 km si è accesa la spia della benzina, ecco quindi il primo ‘unexpected’: mi sono trovato con i due serbatoi davanti vuoti e solo quello dietro, con 220 km ancora da percorrere. A quel punto non mi sono fatto prendere dal panico, ho continuato ad andare un po’ più piano e poi ho fatto alleanza con un ragazzo argentino dei quad, un pilota che avevo aiutato il giorno prima. Non sono riuscito ad arrivare alla neutralizzazione, lui mi ha dato 2-3 litri, sono arrivato e poi ho dovuto riparare la moto. Tra tutte queste cose ho perso parecchio tempo e mi sono ritrovato alla sera col buio delle dune, non è così semplice. Lì mi sono detto che se fossi riuscito ad arrivare a quel punto l’avrei finita, e ce l’ho fatta. Il giorno 2 è stato il più impegnativo dal punto di vista mentale: avevo studiato, ma la meccanica era un po’ il mio punto debole. L’idea di mettermi a riparare la moto era una di quelle cose che speravo non accadessero. Ma l’ho risolta bene e l’abbiamo finita.

È stato questo il momento che ti ha fatto ‘cambiare marcia’?

Lì ho preso coraggio. La tappa 2 era una tappa molto sassosa e complessa, una delle più difficili sulla carta, e le dune di notte sono davvero dei mostri. Le moto non hanno luci, non vedi le tracce, quindi devi per forza saper navigare e per questo ringrazio Jacopo per i suggerimenti in una sessione prima di partire. Ogni tanto arriva una macchina o un camion che ti fa luce, ma va via subito: hanno altre velocità, mentre tu non puoi o rischi di farti male seriamente. L’obiettivo principale era infatti non cadere e quindi non riportare danni fisici o alla moto. Alla fine è stata questa la ragione per cui l’ho finita.

Non sei caduto, ma non sono mancati altri intoppi.

Il quarto giorno ho avuto una serie di altri problemi tecnici. C’era acqua nei serbatoi, quindi il motore non aveva potenza e non si riusciva a salire le dune grosse, dovevo quindi raggirarle. Anche lì sono arrivato tardissimo, con un settore di dune L3 e discent in cui ho rischiato di ribaltarmi. Allora mi sono fermato, avevo ancora 20 km e ho notato che non c’erano waypoint, non sapevo quindi come potevo arrivare. Ho avuto però un’idea: c’erano molti falò e ho pensato che, se erano arrivati lì, c’era di sicuro un’altra strada. Ho cercato di capire chi poteva parlare l’inglese, ho trovato un gruppo di ragazzi e ho chiesto loro come potevo arrivare in cima ad un valico, da lontano si vedevano anche le luci degli altri concorrenti. Mi hanno accompagnato per 5-6 km per questa strada parallela, poi mi hanno indicato la pista da prendere e dopo un po’ mi sono ricongiunto. Ma alla fine devo dire che mi sono ‘svegliato’ dalla 5^ tappa, ho iniziato a dare più gas.

A conti fatti c’è stato un terreno in particolare che ti ha messo più in difficoltà?

No, non mi sono mai perso e non ho mai incontrato un settore specifico che mi abbia creato più difficoltà. Penso proprio perché, avendo fatto un po’ di trial, riesco anche a superare ostacoli che potrebbero essere definiti da hard enduro. Per affrontare la seconda settimana avevo fatto l’Abi Dhabi Desert, molto più dura in termini tecnici, quindi non ci sono stati particolari problemi andando nella sabbia. Sicuramente è stato difficile, anche per le pietre della prima settimana, ma devi sospendere ogni giudizio e diventare una sorta di macchina che anche col minimo di energia continua ad andare avanti. Poi magari a posteriori ci pensi, anche perché con la pioggia le pietre erano scivolose, ma semplicemente le dovevi fare. Questo è stato il mio approccio psicologico.

Come hai gestito la pioggia?

Certamente nei trasferimenti ed in gara da fastidio, anche perché ti toglie visibilità. Ma anche in quelle condizioni ti ricordi che ci sono 100-200.000 persone che ti seguono e vorrebbero essere al tuo posto. “Cavoli, sono alla Dakar!” Accogli tutto. Ma diciamo che sì, abbiamo preso abbastanza pioggia.

Hai trovato alcuni del gruppo Italia nel corso delle tappe?

All’inizio mi ero definito “Motoscopa Italia”, nella prima settimana ero sempre l’ultimo! Sapevo quindi già degli altri, da chi era arrivato a chi si era fatto male. Ma alla fine ero anche rassicurato: se sei davanti ti domani cosa faranno gli altri, essendo ultimo invece avevo il quadro della situazione. L’avevo presa molto lenta, poi dal 6°-7° giorno ho iniziato a stare anche con gli altri, quindi ogni giorno bene o male sono stato con parecchi. Ho viaggiato molto con Ottavio Missoni, un po’ con Eufrasio Anghileri, con Cesare Zacchetti nella parte di sabbia ci siamo davvero divertiti, soprattutto in una tappa. Lui ha una bella guida, io poi andavo abbastanza bene e gli stavo dietro tranquillamente: abbiamo fatto una sorta di balletto. Gli ultimi giorni sono stato anche con Franco Picco, con cui s’è creato un bellissimo rapporto. Gli altri invece non li ho visti, erano più veloci: Lorenzo Fanottoli e Lucci per esempio stavano là davanti.

Che clima s’è creato tra di voi?

Ci siamo divertiti molto. Sono tanti i momenti in cui stai insieme, poi sono tutti ragazzi fantastici. Non li conoscevo tutti, ma questa è una disciplina in cui viaggi per il mondo e sei predisposto sensorialmente ad un ambiente all’aperto, quindi anche all’incontro con altre persone. Mi sono fatto tantissimi amici anche in ambito internazionale: chi fa la Dakar è una persona singolare, sia che venga dagli Stati Uniti che dalla Cina o dal Sudafrica. Una cosa che mi ha colpito è che poi, al momento della prepartenza, ciascuno si trasforma, ritorna nel suo intimo e trova lì la sua concentrazione.

Ogni giorno in moto per tante ore, come si mantiene la giusta concentrazione?

Io avevo con me un team di professionisti che lavora già nel mondo dello sport ad alti livelli, alcuni anche nel motociclismo. Angelo Carnemolla era il mental coach, Pino Di Ionna era l’analista dei dati, Francesco Cagnazzo era il nutrizionista sportivo, Marco De Angelis era il preparatore atletico e osteopata. Abbiamo quindi affrontato questa gara insieme, studiando anche alcuni ‘trucchetti’. La focalizzazione può partire ad esempio dal movimento degli occhi, oppure c’è l’autoipnosi. A molte persone queste cose fanno ridere, a me invece sono servite molto. È certo fondamentale la preparazione fisica che ti fa rimanere lucido, aggiungo l’aspetto nutrizionistico.

Te la sei preparata bene questa Dakar!

Per lavoro mi occupo di produzione di eventi, per un po’ mi sono occupato anche di teatro. Il successo di un evento, di uno spettacolo, è determinato da tutto quello che hai fatto prima che si alzi il sipario. Una volta lì è solo la ripetizione automatica di ciò che hai già fatto, quello che importa è la preparazione. Ho quindi trattato questo sogno come un progetto di lavoro, quindi seguendo lo stesso metodo.

Eri l’esordiente italiano più “di esperienza”.

Forse i bookmaker non mi davano al termine della Dakar… Poi l’età è una cosa relativa in una disciplina molto di testa. Vedevo altri ragazzi fare scelte che potevano portarli ad una condizione di rischio, mentre io in un certo senso guardavo la cosa dall’esterno. È tipico dell’essere adulto.

C’è qualcuno dei ragazzi italiani che ti ha sorpreso di più?

Mi ha fatto molto piacere che Paolo Lucci abbia dimostrato maturità ed una grande possibilità di crescita. Io logicamente tifavo per lui, ma non è facile arrivare 15° mettendosi dietro 12-13 professionisti della RallyGP e con una certa facilità. Paolo può essere anche più veloce, ma ha deciso di arrivare in fondo, con lucidità. Gli altri direi che sono stati tutti bravissimi, qualcuno purtroppo l’abbiamo perso per strada ma è il rischio di questa competizione. Ci vuole anche un po’ di fortuna. Franco Picco poi è un bell’esempio che ci ringiovanisce tutti!

Qual è stata la sensazione una volta finita la Dakar?

Al traguardo ero felice, la soddisfazione di quando hai fatto una bella cosa e l’hai raggiunta. La vera emozione non è stata tanto sul palco, quanto piuttosto una volta sceso. Hai preso la medaglia, hai salutato gli amici, torni al camion per spogliarti per l’ultima volta… L’emozione del ritorno a casa, un po’ come nel cinema americano. Il Gladiatore che ha vinto e torna dalla sua famiglia con un bagaglio di esperienza in più da condividere. Dura poco, perché da lì a tre giorni tornerai uno qualsiasi al lavoro per guadagnarsi il pane. Ti spogli di quel ruolo che ti ha accompagnato per due settimane, per poi tornare nell’ordinario. È stata solo una parentesi: hai 50 anni, non è il tuo lavoro e non sei Paolo Lucci!

Per lui però il ritorno a casa dopo la Dakar è stato ‘uno shock’. Nel tuo caso invece?

Per me no, appena tornato ero pieno di energia. Una marea di persone che non conoscevo, che mi aveva visto magari su Rally POV, ha iniziato a scrivermi messaggi con elogi sulla mia capacità di guida e sulla mia persona. Tutte cose gratuite, in realtà sono andato a farmi una gara… Ma mi hanno fatto molto piacere! L’idea che qualcuno possa essere stimolato anche da come la gestisci, non solo quindi per il risultato. Tutt’ora quindi sto lavorando e vivendo il mio ordinario con grande entusiasmo. È stata una bella esperienza, ho raggiunto il mio obiettivo e ho conosciuto tantissime persone fantastiche, che spero di ritrovare di nuovo durante l’anno. Per condividere ancora di più l’esperienza vissuta. Oltre al fatto che, se ho risolto tutti quei problemi, ora nel quotidiano diventa più facile. Da dire poi che io faccio una vita sempre sotto pressione, è sempre una gara per arrivare alla sera.

Dakar completata, ci torni l’anno prossimo?

Ci tornerei volentieri, ma c’è il problema economico. Se qualche sponsor si vuole fare avanti! Ma qualcuno l’ho già trovato, ci sono buone possibilità. Devo dire che c’è tanta gente che mi vuole sostenere, non penso per le mie performance sportive quanto per la capacità di interpretare in un modo particolare il ruolo del pilota in questa Dakar. Di base comunque mi piacerebbe, vediamo se ci sono anche le condizioni, ma ci sto già lavorando.

Foto: Dealing With The Unexpected/Jader Giraldi

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