7 Febbraio 2023

Cesare Zacchetti non sbaglia un colpo “La Dakar fa tornare giovani”

Cesare Zacchetti ha finito con successo anche la Dakar 2023. Un'altra avventura emozionante: la nostra intervista

cesare zacchetti, dakar

Una certezza ormai per la Dakar, visto che ha completato le ultime quattro edizioni. Cesare Zacchetti, dopo il debutto poco fortunato nel 2016, non ha più sbagliato un colpo dal trasferimento in Arabia Saudita. Anche quest’anno infatti il 53enne piemontese ha portato a casa il lungo ed impegnativo Rally Raid, come sempre in Malle Moto (ora Original By Motul). “Un’esperienza bella, che ti porti dentro” ha sottolineato Zacchetti. Com’è stata per lui l’edizione 2023? Ma diamo anche un’occhiata al passato ed al presente: i sogni da pilota, il lavoro di tutti i giorni, la passione per l’abbinata moto-viaggi e tanto altro. La nostra intervista.

Ormai sei uno dei veterani della Dakar.

Non come Franco Picco, che ormai è sempre più un mito! Infatti gli ho detto che, se decide di smettere, divento io il più vecchio degli italiani. Ma è meglio che faccia in fretta, perché non ce la faccio più tanto, anche se sono più giovane!

Il tuo esordio è avvenuto nel 2016.

Sì, ma era andata male e avevo pensato di lasciar perdere, visto che ero stato proprio sfortunato. Ma quando non riesci a fare qualcosa ti rimane questo desiderio di andare a finire quello che avevi iniziato. Avevo iniziato in Argentina, poi c’è stata la decisione di trasferire in quest’area più vicina a noi, se vogliamo anche più comodo, visto che non c’è il fuso orario esagerato ed arrivi in 4-5 ore. Allora si erano avvicinati molti sudamericani, quand’è tornata qua c’è stato quasi un ritorno di piloti di questa zona. Sono quindi tornato e mi era andata bene, quindi perché non tornarci anche l’anno dopo? È bello, mi diverto…

Dopo il “riscatto” non ti sei più fermato.

Adesso ho fatto tutte le edizioni arabe! Oltre ad essere una bella esperienza, divertente, sportiva ed umana, è anche un modo per rimanere in forma durante l’anno. Quando hai un obiettivo ti alleni, cerchi di stare bene, sei focalizzato: finché ci riesco continuerò ad andare. Anche se a breve compio 54 anni… Averne 20 in meno vorrebbe dire che sei molto più in forma. Adesso devo stare attento a non farmi male, altrimenti con i recuperi… Sono un po’ più attento.

Che cos’è per te la Dakar?

È un’esperienza molto tosta! Per 15 giorni sei in questa “lavatrice”, stai facendo quello che ti piace nella sua massima espressione. Anche per noi che siamo degli amatori, in quei giorni fai parte di questo circo e devi solo pensare ad andare in moto. Nella vita normale devo farmi da mangiare, andare a lavorare, fare benzina… Cose che lì non esistono più. L’unica cosa a cui devi pensare è sistemare la moto, poi pronti, via! Vai in giro e fai quello che ti diverte. Anche se devo ammettere che lo scoglio per chi sogna la Dakar è il costo, sempre abbastanza importante. Serve poi esperienza, quindi aver disputato alcune gare precedenti, e devi avere una moto, c’è l’iscrizione e tutto. Devi però avere anche il tempo e non sempre il lavoro o altri impegni te lo consentono. Ma secondo me se hai una passione in qualche modo riesci.

Ricordiamolo, nella vita di tutti i giorni fai un lavoro ben diverso.

Ho un negozio di abbigliamento. C’è stata un’epoca in cui il lavoro girava un po’ meglio ed avevo poco tempo libero, mentre adesso non va più tanto bene. Forse perché è in atto questo cambiamento sociale, del modo di consumare, di tutto, oltre al Covid e tutto. Di conseguenza ho più tempo libero e questo tempo l’ho utilizzato per dedicarmi di più allo sport. Io poi vivo in un’area fuori Torino, verso le montagne: la prima cosa che ti viene da fare in questi posti è andare in giro in bicicletta o in moto. Una bella dimensione sana e naturale, momenti che quindi riesco a godermi.

Da dove inizia la tua passione per le moto?

Da ragazzo ho corso con le moto da cross. Dai 15 ai 20 anni per me il motocross era la cosa più importante, ero super appassionato e praticamente ho fatto impazzire i miei. Mia mamma aveva paura, però avevamo trovato l’accordo: non sarei mai andato per strada, avrei fatto solo motocross. Essendo una cosa che fai in compagnia, è arrivato il periodo in cui uno andava a scuola, l’altro iniziava a lavorare, quindi si è sciolto il gruppo. Io quindi ho smesso, non sono più andato in moto fino a 40 anni.

Com’è ricominciata?

Avevo un gruppo di amici che, con le moto da enduro, andavano a fare le scampagnate: una volta sono andato con loro, mi sono divertito e ho ricominciato ad andare a fare questi giri. Abbiamo poi fatto una gara, poi una un po’ più lunga, poi una di tre giorni… Sono arrivati anche i viaggi: mi è piaciuto l’aspetto di abbinare il viaggio e la moto. Approfittando di questi rally ovunque nel mondo, sono andato in luoghi che diversamente non avrei mai visto. Ma li ho anche guardati da un punto di vista diverso, quello delle strade sterrate. Per uno dei primi rally andai in Albania, avevamo scoperto un bel territorio e mi era piaciuto questo modo di viaggiare. Sono poi andato in Grecia, in Marocco, in Tunisia, in Libia… Compatibilmente col lavoro, organizzavamo questi giri e ho iniziato così a fare queste gare, aggiungendo sempre nuovi luoghi: Australia, Sudafrica, Messico… Quando ne fai tanti acquisisci esperienza e ad un certo punto mi sono detto di provare a fare la Dakar.

Così di colpo o è un pensiero “cresciuto” col tempo? E come sei arrivato alla corsa?

È un’idea che mi è venuta in maniera abbastanza naturale. La ritenevo però abbastanza irrealizzabile per la questione costi, però ho fatto quelle gare che organizzano durante l’anno per promuoversi, chiamate Dakar Challenge. Un premio dedicato a non professionisti che non sono mai arrivati nei primi 10 di una gara del mondo, quindi per i veri amatori. Una volta, in Egitto, c’era in palio questo premio, ma dopo tre giorni ho avuto un incidente e la mia gara era finita lì. Sono andato però con questo pensiero: se non ci sono tanti iscritti, magari potrebbe essere interessante. Quello in Australia è stato un altro viaggio dedicato a questo: non ci ero mai stato, in più c’era la gara con questo premio a disposizione. Sono andato e ho chiuso 2° per pochissimo, ma l’americano che aveva vinto alla fine non ha potuto partecipare. Ad ottobre mi ha chiamato l’organizzazione per dirmelo, quindi mi hanno dato il premio.

Una corsa contro il tempo per esserci!

Erano ancora in Sudamerica, bisognava portare la moto entro i primi di dicembre a Le Havre. Un mese di tempo per preparare tutto, ma potevo andare alla Dakar! Sono andato quindi da tutti gli amici a chiedere aiuto, per fare promozione… Mi serviva un po’ di budget, poi un amico mi ha prestato una moto e voilà, sono riuscito a partire! Certo l’avevo pensato, ma non era una cosa programmata: il mio approccio era solo faccio i viaggi, poi se succede vedremo. Mi sono reso conto col tempo che non ero pronto, ma alla fine non lo sei mai: hai più esperienza, ma devi fare i conti con qualche novità, ne succedono sempre di tutti i colori. Allora non sapevo nemmeno cosa dovevo fare, ma è stato un capitolo del percorso.

Col passare degli anni questa corsa è cambiata.

C’è stato interesse, sono arrivate le case ufficiali e si è evoluta. Qualcuno dice che ha perso il fascino di una volta, ma non è vero! Ai polemici che dicono che non è più la Dakar di una volta: certo che non lo è, allora era in Africa e non c’era un tubo. Oggi ci sono quasi 5000 persone e non si potrebbe fare lì, l’organizzazione non potrebbe mettere a punto tante cose per fare un evento come quello di oggi. Non ha senso fare i nostalgici. Se la facessero in Cina o negli Stati Uniti, sarebbe un altro bel viaggio in un paese che non conosci. L’Arabia poi è stata una bellissima scoperta dal punto di vista natura perché offre tantissimi scenari diversi. Ma in generale, sono dei fenomeni per riuscire ad organizzare un evento di tale portata.

Anche durante il Covid: tutti chiusi in casa e noi siamo andati in Arabia. O in condizioni meteo imprevedibili come quest’anno, con tutta quell’acqua: hanno il piano B, il piano C, mezzi, disponibilità… Le gare comunque normalmente si evolvono. Una volta attraversavano piste carovaniere, certo sarà stata dura, ma oggi è una corsa dura in maniera diversa. Le critiche sono fuori luogo. Come se oggi si criticassero i successi della Shiffrin perché negli anni ’50 avevi la scaletta, gli sci di legno… È un altro periodo, ma vale per tutti gli sport. Ai critici dico solo che le iscrizioni aprono a maggio: possono andare, si iscrivono, fanno la corsa e poi raccontano la loro storia.

Hai sempre fatto la Dakar in Malle Moto, come mai?

Oggi difficilmente riesci ad iscriverti, c’è molta gente che vuole partecipare. Forse quando sono andato io per la prima volta non era così ambita. Quando sono andato lì ho detto che non avevo nessuno a cui appoggiarmi, che quindi sarei venuto per conto mio, e hanno accettato. Da allora l’ho sempre fatta in quella categoria. Ma non perché volevo fare il figo, solo appunto non potevo fare diversamente. Un’assistenza costa molto: avevo già difficoltà a pensare di andare, aggiungere altre spese… Aggiungo che mi sento bene in quella dimensione, che forse assomiglia di più alle Dakar degli inizi, quando era più un’avventura, un viaggio. Trovi poi gente da tutto il mondo. Trascorriamo tutto il tempo assieme, ci prendiamo cura di noi, nascono davvero delle belle amicizie: ti diverti e soffri assieme, vivendo situazioni che ti avvicinano tanto. Ragazzi che poi non vedo per tutto l’anno e quando ci ritroviamo alla Dakar è come se fosse passato pochissimo, siamo di nuovo in sintonia.

Quest’anno com’è andata?

Per me è stata un’edizione un po’ diversa dalle precedenti. Ho sempre corso da solo, pensando quindi solo a me, mentre quest’anno sono andato con un compagno di squadra. Ho avuto la fortuna di partecipare con il mitico Lucky Explorer e con me c’era Ottavio [Missoni], alla sua prima Dakar. Mi sono quindi un po’ preso cura di lui: avendone già fatte altre, ho cercato di aiutarlo un pochino. Lui è stato bravissimo, è arrivato alla fine al primo colpo, ma ogni tanto ci pensavo, ai rifornimenti chiedevo dov’era… Gli consigliavo di andare piano nei primi giorni mentre lui voleva spingere, ma alla fine le cose sono andate bene.

C’è qualche episodio che vuoi raccontarci?

Il primo giorno ho incontrato Tiziano [Internò] dopo poco: era in piedi, ma non si rendeva conto, se gli chiedevi non rispondeva. Mi sono un po’ spaventato! Da una parte per il dispiacere: sai quanto ognuno ci tenga a questa gara, finirla subito così è una botta. Più del male fisico, è un male dentro per cui rimarrà sempre il tarlo. Ricordo la mia prima Dakar in Argentina: ho finito al secondo giorno con la moto in fiamme. Per due anni mi sognavo sta moto e mi chiedevo come avrei potuto evitarlo, un tormento! Quando succedono queste cose non la digerisci facilmente, se ne va in attimo tutto l’impegno. Ma quel giorno, dopo di lui, ho trovato un altro incidente, vedi l’elicottero con la moto appesa…

Mi sono detto quindi che era pericoloso e che dovevo fare molta attenzione. Sono andato quindi più cauto. Pochi giorni dopo però c’è stato un altro episodio: ho incontrato un amico che corre in macchina, anche lui protagonista di un incidente. Ho visto l’auto ferma e quando mi sono avvicinato l’ho visto su una barella, soccorso dai medici. Stava malissimo, lo sentivo lamentarsi. Anche quelle cose ti condizionano… Ti fa pensare a quanti rischi stai correndo. Sono tutti episodi che mi hanno reso molto cauto, per quello che si può fare: basta non vedere una pietra o non notare un buco. Cose che un po’ ti rallentano e che forse ti fanno pensare troppo, rendendoti meno incosciente. Ma sono arrivato alla fine tutto integro!

A te poi è successo qualcosa di particolare?

Sono caduto più del dovuto. Cosa che invece bisognerebbe cercare di evitare per non farti male e per non rovinare la moto. Ma ero sempre in compagnia di qualcuno ed alla fine l’abbiamo buttata sul ridere. Un giorno ho trovato Lorenzo Fanottoli ed abbiamo viaggiato insieme: prima è caduto lui, quindi l’ho aspettato per ripartire, e poi sono caduto io! Se hai un impatto un po’ importante di colpo si gonfia tutto l’airbag. La cosa che mi faceva ridere è che ogni volta che ti gonfi sono 100 euro, perché salta una ricarica. In questo caso lui era dietro di me, io mi sono capottato, mi rialzo tutto gonfio e gli dico “Cento!” Alla sera facevamo la conta dei danni, c’era gente che ne aveva gonfiati parecchi.

Nel tuo caso com’è andata?

Me la sono cavata, mi sono fermato a tre volte e stop. Sembra invece che Picco ne abbia fatte di più solo la prima settimana! Anche un esperto come lui ne ha gonfiati un po’ e alla fine ha deciso di rallentare. Ma questo è anche indice di un’edizione probabilmente più dura e difficile degli ultimi tempi.

Hai fatto tutte le edizioni in Arabia Saudita. Secondo te questa è stata la più difficile?

Di fondo questa è stata molto impegnativa fisicamente perché è durata due giorni in più, oltre che per il clima avverso. Ma se tutto fila liscio allora ok, se hai un problema tutto si complica, indipendentemente dalla difficoltà del tracciato. Magari è anche un giorno semplice, ma hai un problema e te lo ricordi come una cosa difficile da superare: stai male, oppure la moto non va… Si complica tutto. Bisogna trovare il giusto mix, a partire dal fatto che devi stare bene fisicamente per 15 giorni.

Già questo di per sé non è facile.

Nella vita normale no. Mi rendo conto che sono sempre un po’ raffreddato, un po’ stanco. Invece quando arrivi lì ti alzi alle tre e mezza del mattino, fa freddissimo e mangi male o poco, eppure stai sempre benissimo! Mai un mal di testa… È incredibile, quasi ti trasformi a livello mentale e vivi eccitato per tutto quel periodo. Ti spieghi poi perché la gente ha voglia di tornarci, è un’esperienza forte.

Quest’anno però è stata una Dakar segnata dalla pioggia.

Ti aspetti che possa succedere, soprattutto nel nord, che è un’area più montuosa. Quest’anno però credo sia stato qualcosa di eccezionale, con fiumi d’acqua. Da noi le montagne, le piante assorbono l’acqua, lì invece, quando arriva così forte, scorre a valle: in un attimo dove non c’era niente nasce un ruscello, poi si allarga, infine diventa davvero un fiume in piena. Abbiamo quindi attraversato delle aree in cui trovavi pozzanghere gigantesche, acqua sino alle ginocchia in alcuni tratti… Non ci credevi. Continuava poi a piovere anche mentre tornavamo al bivacco. Magari la gente si aspettava un pochino di caldo… Ma forse si sarebbero lamentati comunque! Alla fine è andata così per tutti, prendi quello che c’è e cerchi di arrivare.

È stata un po’ una sorpresa?

La sorpresa c’è stata di più il primo anno, non mi aspettavo un freddo del genere. Io sono andato leggero, invece mi sono trovato a fare i conti con un clima simile al nostro d’inverno. Ho sofferto tanto il freddo, sono stato male. Adesso invece vado coi guanti da sci per i trasferimenti, o super vestito, col passamontagna, con il piumino al mattino. Se lo sai, ti attrezzi. Quest’anno, oltre al freddo per un paio di giorni, c’è stata tanta acqua!

Un altro aspetto da aggiungere alla lista dei ricordi e dei racconti.

Lì succedeva ogni giorno: alla sera ti trovavi al bivacco con gli altri e tutti avevano qualcosa da raccontare, ad ognuno ne succede sempre una diversa. Alla fine, quando le racconti, ci ridi anche su. È proprio una comunità, un vivere a stretto contatto e condividere tutti questi momenti: una bolla di 15 giorni bellissimi in cui sei staccato da tutto. Oddio, quasi: adesso siamo tutti collegati al telefono, quindi si è al corrente di ciò che succede intorno a te. Bello perché così puoi anche comunicare, però non credo sia stata male l’epoca in cui si sapeva della Dakar quando ritornavano indietro. Ma è stata un’epoca, oggi è così e la gente può praticamente seguire la gara in diretta.

Com’è stata questa Dakar per il gruppo italiano?

Devo dire che quest’anno è stato molto bello perché forse, più che in tutte le altre edizioni, s’è formato un gruppo veramente compatto, affiatato. E non solo tra le moto: anche ed esempio con Rebecca [Busi], che ogni tanto trovavamo vicino a noi, cosa non facile visto che moto ed auto hanno tempi diversi. Ma anche al bivacco non era facile, visto che era gigantesco e stavi con quelli simili a te diciamo. Ma è stata proprio una bella esperienza, siamo diventati ancora più amici.

Come si sono comportati gli altri ragazzi italiani? Qualcuno di loro ti ha sorpreso?

Certamente mi dispiace per chi si è fatto male. Paolo Lucci è stato bravissimo! Ora è con una squadra importante e ha le qualità: speriamo che, facendo tutto il campionato del mondo, possa stare veramente con i primi e farci di nuovo fare bella figura come italiani nel mondo rally. Direi poi che sono stati bravi sia Ottavio che Jader [Giraldi]: prima esperienza alla Dakar e hanno finito molto bene. Con Ottavio avevo già fatto la Sei Giorni: è giovane, fisicamente è forte e sa andare in moto, quindi ero sicuro potesse farlo. Jader non lo conoscevo così bene, l’anno scorso poi non era preparatissimo e non credevo fosse un profilo adatto per fare la Dakar.

Invece si è allenato molto, è andato nel deserto, ha analizzato tutte le situazioni che potevano presentarsi e ha fatto una gara eccezionale. Ma è stato anche carino, ha aiutato il prossimo, italiani e non: ha proprio capito lo spirito della Dakar, dell’aiuto reciproco. E sta già pensando alla prossima Dakar! Lorenzo Fanottoli l’ho visto meno perché era spesso più avanti, tranne la tappa bellissima insieme: ci siamo divertiti tantissimo ed alla fine ci siamo abbracciati. Ma mi ricordo anche un’altra tappa così con un inglese: siamo arrivati stanchi, ma super sorridenti. “What an amazing day, I will keep this memories for lifetime!”, ad indicare davvero quanta gioia hai.

E stai già pensando alla prossima Dakar, giusto?

Direi che è un bell’appuntamento. Mi piacerebbe riuscire a ripeterlo! Adesso la moto ce l’ho, sarà un po’ da mettere a posto, ma spero di andare. Col tempo sono riuscito a creare una rete di persone che mi aiuta, pertanto le cose sono più semplici rispetto a chi si affaccia per la prima volta. La strada è un po’ tracciata, quindi io continuerei! Deve sempre prevalere l’aspetto divertimento su fatica e sofferenza, quando questa situazione si modifica allora dici no. Ma quest’anno ci siamo andati vicini: credo che tutti si siano detti che cosa sono andati a fare. Con gli stessi soldi vivi due anni a Bali come un principe! Invece lì col freddo, la fatica… Credo ci siano stati momenti difficili un po’ per tutti. Ma alla fine tutti vogliono tornare!

Guardando il lato competizione, ti aspettavi la vittoria di Kevin Benavides?

Secondo me oggi ci sono circa 20 ragazzi che possono vincere la gara. Di questi direi che cinque sono dei fuoriclasse. Ma ogni giorno cambia la situazione: quello che vince un giorno arriva 18° nella giornata successiva, o il 7° arriva 2° il giorno dopo… Pensiamo a Sunderland, l’anno scorso vincitore e quest’anno l’ho visto fermo pochi chilometri dopo Tiziano. È una gara molto difficile e c’è un livello molto alto, quest’anno poi se la sono giocata fino all’ultimo. Ogni anno poi ci sono ragazzi nuovi e giovani, ben diverso rispetto ad una volta. Allora era fatta da gente che aveva corso nei rally, nel motocross, nell’enduro, aveva avuto una vita professionale e l’ultimo colpo era andare a fare la Dakar, un po’ il fine carriera. Oggi non è più così, tanti giovani scelgono questa disciplina già a 20 anni, come appunto i primi, tranne poche eccezioni.

Rispecchiano le due anime della Dakar.

C’è questo ritmo altissimo dei corridori professionisti, dall’altro lato c’è l’amatoriale. Con qualcuno come me, un po’ anzianotto, e poi c’è nonno Picco! Una vita dedicata al motociclismo, in sport molto duri. Forse c’è qualcuno tra le auto che può vantare una vita così.

Quali sono i tuoi programmi per il 2023?

Adesso, giusto per restare caldo, a marzo vado a fare una gara in Qatar. Non era prevista nel calendario ma è una cosa nata in questi giorni: siamo un gruppetto di italiani che si ripresenta lì per una due giorni della formula Baja. Riguardo poi l’abbinata moto-viaggi, il ragazzo sudafricano che ha vinto la Malle Moto [Charan Moore] e suo fratello sono gli organizzatori di una gara extreme in Lesotho, in una zona di montagna. Ho conosciuto lui e mi ha fatto venire voglia di andarci: non è tanto la mia disciplina ma non importa, se mi trova una moto a noleggio mi presento. Questo però sarà a settembre.

Neanche il tempo di riposarsi!

Mi sono riposato per due settimane, ero in arretrato di sonno. Ho accusato più del solito la stanchezza, probabilmente perché qui a casa mia faceva freddissimo! Forse la neve non era la condizione migliore per riprendersi. Ci ho messo un pochino a riprendermi, ma adesso mi sento bene e, appena si potrà, riparto con la moto.

Foto: Instagram-Cesare Zacchetti

Lascia un commento