25 Settembre 2021

Dopo un’altra tragedia correre o stare in silenzio? La coperta è corta

Dean Berta Vinales, 15 anni, è morto in pista. Correndo, e correre è pericoloso. Adesso che si fa? La famiglia Vinales: "Correte"

Dean Berta Vinales

Di Massimiliano Cocchi

Dalle 13:53 nessuno ha più acceso una moto. Nel paddock di Jerez de la Frontera c’è solo silenzio, la cosa più anomala in un luogo dove si sta correndo una gara di motociclismo. A Jerez questo weekend ci sono le gare della WorldSBK, il campionato mondiale delle moto derivate dalla produzione di serie, ma oggi non corre nessuno. È tutto fermo, sospeso. Sospeso al momento in cui è arrivata la notizia dell’incidente. 

Come spesso mi capita durante le gare delle categorie di contorno a quella principale, la Superbike, sono in sala stampa, uno stanzone pieno di scrivanie, monitor e tv che nei weekend di gara diventa il mio ufficio. 

Quando nella tv vedo la bandiera rossa alzo gli occhi verso i monitor e cerco di capire cosa è successo. “Rossa” significa che la gara è stata interrotta, ma è un avviso generico e nei cinque anni che ho passato seguendo questo campionato come addetto stampa mi è capitato decine di volte di vedere una gara interrotta. Stavolta però è diverso, ed è la prima volta che vivo una situazione come questa. Con il passare dei minuti si capisce che è successo qualcosa di grave perché tutto rallenta: nei box c’è meno frenesia, le tv non mandano in loop i replay dell’incidente, l’immagine è fissa come se le telecamere inquadrassero il vuoto. Gli altri monitor che di solito scandiscono il ritmo della gara hanno solo la scritta RED FLAG! Nessun altro avviso. 

Anche in sala stampa, con il passare dei minuti, l’unico suono resta quello dei tasti dei colleghi che battono sulla tastiera del pc. Qualcuno fa il nome dei piloti coinvolti nell’incidente. Sui social escono le prime informazioni sommarie. Sembra strano, ma pur essendo sul posto apprendo le prime notizie da twitter: ancora si parla solo di grave incidente. Poi la scritta red flag lascia il posto all’annuncio che tutte le altre gare della giornata sono cancellate. È come una sentenza. Gli sguardi che prima erano rivolti verso i monitor e le tv si abbassano. Ora non parla davvero più nessuno e nessuno scrive. Mi sento triste, disorientato. Anzi, sono sotto shock. E lo capisco adesso, che sono passate quasi sei ore, mentre scrivo questo pezzo che nessuno mi ha chiesto, ripercorrendo con la mente una delle esperienze emotivamente più forti della mia vita. 

Quando decido di alzarmi e tornare al box sono da poco passate le 19:00 e tra meno di mezz’ora mi aspetta la cena con tutto il resto del team.

Esco dalla sala stampa e cammino nel paddock. Non c’è il solito via vai. A sinistra ho i camion posteggiati ordinatamente con le motrici che mi guardano e i rimorchi rivolti verso l’ingresso dei box. A destra ho le grandi hospitality, i ristoranti itineranti che usano team ufficiali, mischiate con le tende dei team delle categorie più piccole. È come camminare in un gigantesco corridoio vuoto. Passo davanti alla tenda del team Vinales, è aperta. La moto di Dean Berta Vinales #25 è al suo posto sul tappeto, la carena non ha un graffio, il casco è sul serbatoio. Tutto come sempre, se non fosse per la corona di fiori appoggiata davanti alla ruota anteriore. Poco più indietro, parzialmente nascosto dal banco da lavoro c’è un uomo. Non lo conosco, forse è il telemetrista, l’uomo che legge i dati della moto al pc e “aggiusta” l’elettronica. Quando vede che mi avvicino alla tenda si alza e mi viene incontro. Ci abbracciamo. È una stretta forte, un misto di tristezza e rabbia. Poi guardiamo quella moto, i nostri sguardi si incrociano e ci abbracciamo di nuovo. Ancora più forte, stavolta per farci forza. Quando mi volto per andarmene mi accorgo che non ci siamo scambiati neanche una parola e capisco che non serviva. Lo sappiamo benissimo tutti e due che il motociclismo è uno sport pericoloso, così come sappiamo di non essere preparati a quello che è successo.

Dean Berta Vinales è morto poche ore fa in pista, durante una gara. Era un ragazzino di 15 anni ed era un pilota. E i piloti corrono anche se sanno bene che correre in moto è uno sport pericoloso. 

Di fronte a una tragedia del genere la decisione più difficile da prendere è: cosa fare? Chiudere tutto e restare in silenzio, o continuare a correre, già domani? La voce che gira nel paddock è che domani si corre. “The show must go on” per colpa del business, mi hanno sempre ripetuto. Perdonatemi, ma stando qui in queste ore, questa risposta mi sembra banale, vuota. E una risposta giusta mi pare che non ci sia. Qualunque sia il punto di vista ho solo domande e dubbi: sappiamo tutti che correre è pericoloso, e lo sanno anche i piloti, ma loro sono i primi a voler correre domani. È follia? Cerco di analizzare la situazione con lucidità e penso che il motociclismo, soprattutto a questo livello, ha raggiunto un livello di sicurezza altissimo. Il momento più pericoloso nelle gare, oggi, è rimanere in mezzo alla pista dopo la caduta. A Dean è successo proprio questo, trasformato in ostacolo da schivare dopo essere stato sbalzato dalla moto.  Una dinamica simile ha portato via anche Jason Dupasquier pochi mesi fa, al Mugello. Il principio è semplice: se cadi da una moto sei esposto, nudo; devi smaltire l’energia cinetica del tuo corpo senza incontrare o essere colpito da ostacoli. Ma se i mezzi, l’equipaggiamento, gli spazi di fuga e le barriere di protezione hanno fatto passi da gigante come si può eliminare la possibilità che il pilota resti in mezzo alla pista o che venga colpito da altri mezzi fuori controllo? E i piloti che domani vogliono correre questa situazione la conoscono benissimo.  

E poi, fermarsi domani che senso ha se il prossimo weekend c’è un’altra gara a Portimao, in Portogallo? Che cosa può cambiare in meno di una settimana? Riapriamo pure la discussione sul numero di piloti che corrono nelle categorie più piccole – 40 piloti in una sola gara sono decisamente troppi – mettiamo un limite minimo di età nelle categorie. Tutto giusto, ma ho come la sensazione che qualunque sia il punto di vista – dei piloti o del business – la coperta sia sempre corta. E allora domani si corra, semplicemente, perché la famiglia di Dean ha chiesto così per onorare il figlio. Per Dean che aveva scelto di dedicare tutte le sue energie al motociclismo sognando di diventare un campione. 

RIP Dean  🙏

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