contatore per sito Giuseppe Morri: "Bimota, vi racconto una storia di uomini" - Corsedimoto
Giuseppe Morri: "Bimota

1 Febbraio - Massimiliano Garavini

Giuseppe Morri: “Bimota, vi racconto una storia di uomini”

La scusa è di quelle ghiotte: mercoledì 7 febbraio alle ore 21 a Imola presso la Sala Convegni del CRAME in via Gronchi 53, il giornalista Luigi Rivola presenterà il libro “l’Era d’oro Bimota” di Saverio Livolsi, scritto assieme a Giuseppe Morri. Troppo grande la curiosità di intervistare Morri per lasciarsela scappare; una conversazione con lui è come strappare a morsi la nostra storia motociclistica recente. Il sogno, le vittorie, le difficoltà.

STORIA – In mezzo a tutto, loro. Perché il fondatore di Bimota ci tiene a precisarlo: «dietro ogni avventura ci sono soprattutto degli uomini. La loro visione è il primo motore di tutto.» Parlare con Morri è come affondare nella carne viva della passione, poco ma sicuro. Siamo stati a lungo ad ascoltare la storia di una vita fenomenale, vissuta intensamente, senza rimpianti. Sarà che entrambi siamo romagnoli – ma io provengo dalla parte sbagliata, lui da quella giusta – figli di quel lembo di terra grassa, ostinata e sanguigna che fa del motore una sorta di religione laica, ma Morri è un gigante. Diretto, schietto fino alla brutalità, racconta aneddoti che incantano. Le parole sono scabre, affilate. Arrivano come pietre ma alla fine ti lasciano il sorriso. Pensa a cosa mi sarei perso, Giuseppe, se oggi non avessi parlato con te.

Ci racconti come hai iniziato?

« Eravamo idraulici all’inizio degli anni settanta. Io, Bianchi, Tamburini. Tre persone diversissime. Sai com’è nata Bimota? Dai tubi e dagli impianti. Ad un certo punto Tamburini, che era malato per la velocità, ha un brutto incidente in pista. Succedeva spesso a quei tempi che anche le uscite in circuito tra amici diventassero una sorta di competizione. Così avevo deciso che non saremmo mai potuti diventare soci: Tamburini aveva una venerazione per la velocità che un po’ mi preoccupava. Una sera ci ritrovammo in magazzino, a riordinare e sistemare scatoloni. Cominciammo a parlare di moto, non smettevamo più. Da lì iniziò. Tutto.»

Hai legato a Bimota una parte importante della tua vita. Che ricordi hai di quella avventura?

«Bimota resterà sempre speciale. Quello che abbiamo saputo creare – lo dico perché lo penso, anche se può sembrare presuntuoso – è qualcosa che rimane tuttora nel cuore degli appassionati. Quel motociclismo e quelle persone sono state eccezionali. Tamburini era geniale: competentissimo, sfegatato, fuori dagli schemi. Quando iniziammo con le competizioni la nostra HB1 non fece subito una bella figura: decidemmo che non avremmo smesso di provarci finché le nostre moto non fossero partite dalla prima fila. Direi che siamo andati ben oltre (ride)!»

Che rapporti c’erano tra voi?

«Parlo di me e Tamburini, perché Bianchi se ne uscì subito. Eravamo due caratteri forti, difficile andare d’accordo. Siamo romagnoli cresciuti con le mototemporade, vedevano in ogni marciapiede un cordolo. Ci siamo scontrati, certo, ma ne apprezzavo il valore. Però eravamo testardi, ostinati. Pensa che ad un certo punto mi offrirono la possibilità di far gareggiare le Ducati SuperSport. Andai a ritirare la moto a Borgo Panigale e la portai in azienda. Massimo [Tamburini], si rifiutò di toccarla. Non la volle neppure vedere, non ci fu niente da fare. Immagina il mio imbarazzo quando riportai la moto in Ducati dicendo: “scusate, grazie tante, ma non abbiamo tempo, non riusciamo”. Non era vero, ma che potevo fare? Poi, ma questa è storia che conoscono tutti, abbiamo ritrovato Tamburini in Ducati a creare quel capolavoro che fu la 916. La vita è strana, a volte, dobbiamo solo prenderne atto. Ricordo che per una controversia legale ad un certo punto Bimota dovette entrare in amministrazione controllata. Contro ogni pronostico, continuando a lavorare, riuscimmo a far uscire l’azienda dalle secche, a riportarla dove meritava di stare. Quella sera, era il 19 dicembre, alla radio passò una canzone: “uno su mille ce la fa”. Piansi.»

Perché dici che la vostra è stata una bella storia di uomini ?

«Perché devi pensare sempre a chi eravamo, da dove siamo partiti e dove siamo arrivati. Nel corso della sua storia, il marchio ha visto avvicendarsi Federico Martini, purtroppo scomparso troppo presto, e Pierluigi Marconi. Tre uomini eccezionali. Le nostre moto non erano solo tecnica e vittorie, ma nascevano da gente con il cuore e le palle. »

Recentemente abbiamo parlato di quanto il marchio Bimota sia amato, anche all’estero.

«Ricevo tuttora decine di lettere di appassionati, soprattutto dal Giappone e dagli Stati Uniti. Ti racconto un aneddoto: quando presentammo la DB1 al Tokyo Motor Show venni scelto per un incontro ufficiale in rappresentanza dell’industria italiana in Giappone. Accanto a me c’era anche un ministro giapponese. C’era una folla di giornalisti incredibile. Chiesi se fossero tutti della stampa specializzata, ma mi venne risposto che in realtà erano perlopiù esperti di design industriale. La DB1, con la carenatura integrale “tricolore”, rappresentava un’icona di design. Se mi chiedessero perché ancora adesso c’è tanto amore per la Bimota, posso solo risponderti che non raccontavamo bugie, ma c’era tanta sostanza nelle nostre moto.»

Avete scritto pagine importanti della storia del motomondiale e della superbike. Che rapporto avevate con i piloti ?

«Li abbiamo amati tutti. I nostri piloti erano speciali. Paradossalmente forse avrebbero vinto di più se avessero avuto meno coraggio nel polso destro ma più cervello, ma noi li amavano per questo. Attenzione non sto parlando solo dei grandi nomi come Ferrari, Mamola, Falappa, Tardozzi, ma anche di quelli meno famosi. Chi se lo ricorda Beppe “Kocis” Elementi? Un grande con un cuore grosso così. »

Dopo l’esperienza Bimota sei rimasto nel mondo del motociclismo sportivo, in una veste diversa.

«Lasciai l’azienda nel 1993 perché io e i soci avevamo una visione diversa: loro erano più orientati agli aspetti finanziari. Ma quello non era il mio motociclismo. Quando hai vissuto così intensamente la vita della tua impresa, lasciare Bimota per fare moto da un’altra parte mi sarebbe sembrato un po’ come tradire mia moglie. Per questo mi sono dedicato ad altri progetti, come far crescere i trofei monomarca Aprilia e Yamaha. Sono soddisfazioni diverse, ma quando vedi 180 motociclisti di tutte le età che scendono in pista, ti assicuro, non sono meno significative. »

Il libro “l’Era d’oro Bimota” scritto in collaborazione con Saverio Livolsi per l’editore Giorgio Nada (Pagine: 360 – Foto: circa 700 in b/n e a colori – Cartonato con sovraccoperta – Testo: italiano – Collana: Marche Motori) sta ottenendo un buon successo. Perché hai voluto raccontare questa storia?

«Perché era un’idea che avevo in cantiere da tempo. Livolsi ha tradotto questa esigenza in pagina. Volevo raccontare una storia. Una storia di uomini.»