26 Gennaio 2021

Storie di Dakar. Angelo Pedemonte: “Emozioni che non trovi in altre corse” (parte 2)

Angelo Pedemonte ha chiuso la sua prima Dakar. L'organizzazione, l'ambiente, gli incidenti, con anche qualche critica... Ma vuole tornarci. La seconda parte dell'intervista.

pedemonte dakar

La Dakar è una corsa unica nel suo genere. Ce lo conferma Angelo Pedemonte, che quest’anno finalmente ha realizzato il sogno di prendervi parte. Purtroppo la sua gara si è interrotta a metà per incidenti e guai fisici, come ci ha raccontato nella prima parte dell’intervista. Qui invece ci parla dell’organizzazione, dell’ambiente, di alcuni incidenti capitati ad altri piloti, con qualche appunto e critica. Non nasconde però l’intenzione di tornare a prendere parte a questa mitica competizione. Ma lasciamo spazio alle sue parole.

Com’è stata l’organizzazione dell’evento in sé?

La quota può sembrare esosa, ma è giustificata. Hai un paddock organizzato, puntualità, anche nel mio caso (a parte le lastre) l’elicottero è arrivato prontamente, chi ha avuto problemi più seri è rientrato con voli dedicati… Oltre ad essere stati molto disponibili ed efficienti. Non amo i francesi [risata], ma hanno dimostrato di saperlo fare. Si muovono bivacchi da minimo 1500 persone, ho contato 10 pullman unicamente per spostare il personale. Ad esempio, non si mangia nelle tende come nell’Africa Race, ma ci sono strutture delle dimensioni quasi di un campo di calcio, riscaldate e pulite. Certo poi noi avevamo anche un camion attrezzato, quindi ci trovavamo in una condizione ‘privilegiata’. 

Un suo parere sull’ambiente della Dakar.

È unico. Io ho partecipato anche ad altre manifestazioni organizzate da A.S.O., ma non c’è paragone. Questa è la gara più difficile del mondo e la vivi dal primo istante fino all’ultimo. Chi non l’ha mai fatta non può capire che cosa significhi. Il clima, la tensione, l’odore della Dakar li vivi attimo per attimo, da quando metti piede nel paddock per le verifiche amministrative al palco di chiusura. Come dicono loro, “La Dakar c’est la Dakar”: quando torni a casa sei diverso, hai vissuto un’esperienza che ti cambia. Vivi emozioni che non ritrovi in nessun’altra manifestazione di questo tipo. È un’esperienza di vita che ti porti dietro, indipendentemente dal risultato. Io ne ho fatta metà, ma l’ho assaporata pienamente.

Un’esperienza da ripetere? 

Tutti vogliono tornare ed io certamente sono tra i primi. Soprattutto perché quando non riesci a portarla a compimento ti resta un po’ di amaro in bocca. La volontà sarebbe quella, ma certo dovremo confrontarci con tutta una serie di situazioni reali: il lavoro, l’azienda, la famiglia, l’età, il tempo… Non le nascondo che solo facendola ho scoperto il vero grado di difficoltà e soprattutto la necessaria preparazione per una gara del genere. Non si tratta solo dell’aspetto tecnico legato alle ore di competizione, ma bisogna sommare tutta un’altra serie di fattori che rendono la corsa ancora più impegnativa.

Qualche esempio?

Gli orari: la sveglia è sempre alle 4, con il freddo, e non puoi metterti a mangiare tanto a quell’ora. Nella migliore delle ipotesi riesci a scendere dalla moto alle quattro del pomeriggio: sono 12 ore quindi di tensione e di fatica, a cui aggiungere ritardi di vario tipo. Completi il trasferimento, mangi e cerchi di scaldarti, poi vieni buttato in speciale per 7/8 ore, interrotte da due soste di refuelling da circa 15 minuti. In questo tempo devi pensare a mangiare qualcosa e dare una sistemata alla moto, prima di ripartire. Arrivi alla sera nel paddock, devi mangiare e lavarti, poi c’è il debriefing… Sono cose che ti raccontano, ma solo vivendole ti rendi conto di quanto possano influire sull’andamento della gara. Ogni giorno hai addosso la fatica dei giorni precedenti.

Fatica determinante in certi casi?

Si è visto anche con i piloti ufficiali, con gli incidenti che sono capitati: la metà di questi sono successi per stanchezza e poca lucidità. Penso a Barreda, come mi hanno raccontato: erano arrivati lui e Brabec per il rifornimento, ma ad un certo punto Barreda ha acceso la moto ed è partito. Ha fatto 100 km, poi gli è finita la benzina e gli girava la testa, quindi ha chiamato l’elicottero. Lui non sapeva nemmeno perché era ripartito! Questo per una caduta precedente che è stata sottovalutata: a questo punto l’hanno preso e portato in ospedale, era in stato confusionale. I primi procedono nella seconda settimana con gli stessi ritmi della prima, ma con una capacità di reazione fisica e mentale che è del 50%. 

Quindi diventa ancora più pericoloso.

È una selezione un po’ ‘disumana’. Cherpin poi l’avevo visto nel giorno di riposo: si trascinava letteralmente, con gli occhi mezzi chiusi. Non era in condizione di ripartire, non era fisicamente in grado nemmeno di salire in macchina. Il giorno dopo è caduto, ha battuto la testa, è entrato in coma e non ne è più uscito. Certo era una cosa che poteva capitare a chiunque, ma lui andava fermato. Questa per me è la parte disumana della gara che rispecchia poco l’aspetto sportivo: giusto che la corsa sia impegnativa, ma c’è anche una parte che andrebbe analizzata. Parliamo di 32 morti in moto nelle ultime 24 edizioni… Questo è il punto negativo che evidenzio. Tutte le attenuanti che vogliamo, ma credo abbia preso una piega molto diversa da quanto voluto da Thierry Sabine. 

Vale a dire? 

Una gara nata con gli amici, mossi dallo spirito degli avventurieri, per amatori a cui partecipano anche professionisti. Adesso è diventato il contrario, una gara per professionisti con amatori che sono quasi ‘agnelli sacrificali’. Ha perso un po’ lo spirito dell’avventura, la parte romantica, per diventare spettacolo. Ma vale un po’ per tutti gli sport nel mondo: dove non c’è spettacolo non c’è guadagno. Mi hanno detto che A.S.O. porta a casa 50 milioni per correre in Arabia Saudita… 

A livello fisico come si è sentito?

Nessuno arriva con la preparazione giusta. Non è mai sufficiente: sotto certi aspetti è ben al di là della normalità e della preparazione che si può dedicare a questo tipo di gara. Cito di confronto l’Africa Race: sono molto carenti a livello mediatico, ma nelle tappe, cominci la speciale dal bivacco e la finisci al bivacco successivo. Qui invece ci sono anche lunghi tratti di trasferimento e ti stanchi per niente, visto che a livello di gara non servono. Ti mettono dentro il doppio dei km necessari e secondo me in parte imbruttisce la corsa, visto che sono tratti che servono solo a sfiancarti.

Ma nonostante tutto ci vuole tornare. 

Quindi viene da dire ‘Ma allora sei un cretino’ [risata]. No: sono un appassionato, un folle, anche io affascinato da ciò che ormai è diventato un mito. Voler dimostrare di riuscire a fare la cosa più difficile del mondo appassiona tutti. Ogni anno 350/400 fuori di testa da tutto il mondo ci sono. Nel paddock della Dakar credo che di normali ce ne siano davvero pochi, in particolar modo tra i motociclisti. 

Seguirà la terza ed ultima parte. 

Foto: RT73 Team

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