14 Luglio 2022

Superbike: Marco Borciani, le mille sfide di un campione che non si è mai arreso

Intervista esclusiva a Marco Borciani: dalle battaglie in Superbike alla malattia, passando attraverso la sua stagione da incubo con Max Biaggi. "Quante ne ho passate!"

Marco Borciani; Superbike

Tutto è iniziato da una folle corsa su una statale. La storia di Marco Borciani è un concentrato di emozioni: sorrisi e lacrime, rabbia e rivincite ma soprattutto coraggio, tantissimo coraggio. Non solo in pista. Marco Borciani è come un torrente di montagna, è immediato, diretto, travolgente.

Nato nel 1975 a Desenzano del Garda, la sua infanzia sembra una barzelletta.

“Mio padre era appassionato di motori. A me piaceva qualsiasi veicolo: moto, macchine, motorini, perfino i trattori. A 6 anni mio babbo mi comprò una specie di motina con cui giravo nei piazzale davanti al ristorante dei miei genitori. Ad otto caricavo dietro un’amichetta ed andavo in paese a comprare le patatine. A nove anni ho demolito l’auto di mia mamma, una Uno, andando a sbattere contro un muro poi ho fatto finta di nulla e l’ho lasciata lì. A 11 sono scappato via dai carabinieri che mi volevano fermare mentre ero su un motorino”.

Era la tua prima moto?

“I miei genitori avevano comprato una Gilera da enduro a mio fratello, di cinque anni più grande di me, e montavo sulle casse dell’acqua per riuscire a salirci sopra e girare con quella”.

Non pensavi però alle gare?

“No, non seguivo il mondiale. Un giorno però dei ragazzi del mio paese mi portarono a Misano a vedere un gara del motomondiale. Ci imbucammo nel paddock. Feci le foto con i campioni dell’epoca e non sapevo neppure chi fossero però rimasi estasiato e mi innamorai di quel mondo. A 16 anni volevo a tutti i costi il 125 ma mio padre non me lo comprò perché andavo malissimo a scuola: io dovevo lavorare alla mia vespa non studiare!

Andavo a comprare i pezzi da Fontana che aveva il team nella Sport Production. Un giorno mi disse di andare con lui che doveva fare il rodaggio ad una moto, mi vide guidare, su strada, e mi disse che ero un pazzo e dovevo andare a correre in pista. Io fino a quel momento non ci avevo ancora mai pensato. Così vendetti in mio kart ed un po’ di cose che avevo in giro nel garage per fare la prima gara, una del Motoestate a Varano assieme a tutti i big come Locatelli ed altri”.

Ed è inizia così la tua carriera?

“Sì poi ne ho fatte tante altre, miglioravo ogni volta che andavo in pista. La prima volta che sono andato al Mugello per il Trofeo Ghiselli, c’era anche Valentino Rossi e lo avevo battuto. Eravamo entrambi al debutto su quella pista. Nel 1994 ho fatto l’Italiano Sport Prodution. Nel 1997 ero già nell’Europeo 125 con il team Matteoni ed ho fatto la mia prima wild card nel Mondiale. Il problema è stato Melandri“.

In che senso?

“Da metà stagione in poi è arrivato Marco, giovane ma promettentissimo e con aziende importanti che puntavano su di lui. Io mi ero sentito messo un po’ da parte. L’anno dopo speravo fosse arrivato il mio turno ma la storia sia è ripetuta con Poggiali in squadra. Psicologicamente ero un po’ fragile e ne risentivo. Speravo poi di andare nel Mondiale ma non se ne fece nulla e rimasi a piedi. Rumi mi propose di fare il Mondiale Supersport ed accettai. Il livello era altissimo, con oltre 50 piloti ma la moto non era il massimo e ad un certo punto ho iniziato a temere di non saper più andare in moto. Sono passato al CIV e lì sono rinato”.

Sei stato chiamato al Mondiale Superbike?

“Ho fatto tre stagioni con Pedercini ed è stata un’ottima scuola. In quel periodo c’era molta differenza tra moto ufficiali e private tuttavia ho conquistato dei bei piazzamenti. Il mio unico rammarico è non essere mai riuscito a salire sul podio anche se ci sono andato molto vicino in diverse occasioni. Purtroppo sono sempre stato abbastanza sfortunato. Quando ero al top io aveva problemi la moto e viceversa. Una volta venni frenato da problemi intestinali proprio quando avrei potuto lottare per la vittoria”.

Nel 2006 hai aperto una tua squadra e per un po’ sei stato sia pilota che team manager. Com’è andata?

“All’inizio tutto bene. Correvamo io e Ruben Xaus, era difficile per me fare sia il pilota che il team manager però nel CIV andavo molto bene ed ho vinto due titoli tricolori poi ho commesso un errore grossissimo: fare correre Max Biaggi”.

Con Biaggi non ti sei trovato?

“La nostra squadra era giovane e Biaggi era impossibile da gestire come personaggio. Era la primadonna ed aveva delle pretese spropositate. Dopo le prime 4 gare lui aveva una moto ufficiale mentre Xaus guidava sempre quella clienti ma Ruben vinceva quindi il team c’era, non poteva dire che il problema fosse la squadra. Mi sono trovato molto male con lui, è stato un incubo quell’anno”.

Nel 2009 avete fatto correre solo Shane Byrne. L’inizio della fine?

“E’ arrivata la crisi economica e ho dovuto mettermi in società con altri passando dalla padella alla brace, anzi, nel 2011 sono finito proprio tra la lava di un vulcano”.

Dopo cosa hai fatto?

“Terminata la mia avventura da team manager, ho iniziato fare i corsi di pilotaggio come istruttore, cosa che faccio ancor oggi a Cremona, Misano e Mugello. In più sono tecnico federale e seguo i ragazzini delle Ohvale. Ora va tutto bene ma quante ne ho passate!”.

Hai avuto problemi di salute. Te la senti di parlarne?

“Certo perché può essere d’insegnamento anche per altri. Durante la mia gara per la vita ho perso alcuni compagni di squadra. Lì mi ha aiutato molto essere un pilota, avere uno spirito competitivo, non arrendermi mai. In pratica nel 2016 mi hanno diagnosticato un linfoma. Con il protocollo tradizionale avevo il 70 cer cento di possibilità di morire il 30 per cento di vivere. Con una cura sperimentale, chissà. Io non ho avuto dubbi. Ho firmato per quella sperimentale. Sono stato quattro mesi in isolamento totale in ospedale. Poi mi sono ripreso. Ho reagito con forza, consolavo chi mi stava vicino, lottavo. E ne sono uscito alla grande! Sono vivo grazie alla sperimentazione, ne vado fiero e ringrazio l’ematologia di Brescia. Ora sono passati sei anni, faccio i controlli periodici e non c’è più traccia della malattia. Ero abituato a lottare in moto, ho lottato anche nella vita ed è stato determinante”.

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