9 Febbraio 2023

Lorenzo Fanottoli emozione Dakar: “Quando arrivi capisci perché l’hai fatta”

Lorenzo Fanottoli quest'anno ce l'ha fatta. Tutta l'emozione di chi è riuscito a completare l'impresa nella nostra intervista.

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Non è stato fortunato al debutto nella Dakar 2022, stavolta ci è riuscito. Lorenzo Fanottoli, pur con qualche intoppo fisico, è arrivato alla fine al secondo tentativo. C’era un capitolo che si era interrotto presto, un “riscatto” da portare a termine, ma anche un’altra avventura da vivere. È nato e cresciuto in Ghana, si è poi spostato in Italia con la famiglia quand’era ancora piccolo, per poi ritornare in seguito in Africa. Precisamente in Nigeria, dove vive e lavora, e dove si è rifugiato dopo il freddo dell’Arabia Saudita. “Ne ho preso così tanto che non mi manca!” ha scherzato. Ma com’è stata la sua Dakar, quella che “mi ha insegnato ad essere paziente”? Il suo racconto nella nostra intervista.

La tua prima Dakar s’era chiusa molto presto, stavolta l’hai finita.

Che soddisfazione! Sono contento di averla finita, non tanto però del risultato finale. Ma l’obiettivo era arrivare alla fine, una risposta per me e per tutti. Anche se ho dovuto faticare fino all’ultimo: negli ultimi 30 km la moto non andava più, avevo problemi alla pompa della benzina! Ero con l’ansia a mille, continuavo a guardare quanto mancava, pregando la moto che tenesse ancora… Altro che godersi gli ultimi chilometri. Ma siamo arrivati!

Ci sei riuscito nonostante qualche problema fisico. Adesso come stai?

Il quarto giorno ho strappato il legamento collaterale del ginocchio sinistro, una situazione che stiamo ancora valutando per capire se operarmi o no. Sempre nello stesso giorno ho rotto due legamenti della caviglia destra, avevo anche un edema osseo e forse una microfrattura. Il nono giorno l’airbag mi ha salvato la vita, ma ho fatto due ernie alla cervicale, avevo perso anche sensibilità alla mano destra. È stata colpa mia: andavo a 130 km/h, c’erano due buchi e io non ho visto il secondo. Si è bloccato il davanti della moto, mi ha lanciato e sono atterrato di testa, quindi ha compresso tutta la spina. Ho rotto il casco, ma grazie all’airbag non ho piegato il collo, altrimenti mi sarei rotto forse vertebra, osso del collo… Lì potevo fare danni seri. Il giorno dopo erano 115 km di dune e non riuscivo a fare niente, ero ancora rintronato e avevo mal di testa. Ho dovuto quindi rallentare, altrimenti non andavo avanti.

Non è stata davvero una Dakar semplice!

Assolutamente. Ma avevo preso cortisone, antidolorifici… Qualsiasi tipo di pastiglia in corpo. In quei momenti poi hai l’adrenalina a mille e ti passa, anche se comunque te ne accorgi in certi momenti. Quando salti da una bella duna, o col male al collo non riuscivo a tenere la moto ad alta velocità, ad esempio a 150 km/h. Altrimenti stringi i denti e vai avanti, sei lì e non molli. L’anno scorso ho rotto la clavicola in maniera scomposta, ma ho continuato finché ci sono riuscito. C’era gente in giro con le stampelle che il giorno dopo era in moto! Io camminavo ancora, quindi non avevo scuse.

C’è stata un po’ di “soggezione” quando sei arrivato alla tappa in cui ti sei fermato l’anno scorso?

Sì! Infatti il gas era al 40%, andavo proprio a spasso. La prima settimana non sono andato forte, soprattutto per tutte quelle rocce, per non rischiare di farmi male. E tanti sono andati fuori proprio in quei primi giorni! Io mi sono sbloccato solo nella seconda settimana, quando ho iniziato a stare meglio ed a divertirmi. Prima, tra il maltempo e quello che è successo l’anno scorso, non avevo la testa sulla gara. Per esempio, in quei giorni ho trovato uno che era rimasto senza benzina e l’ho trainato per 20 km, perdendo 45 minuti. Peccato non sia servito molto, s’è ritirato il giorno dopo… Ho lasciato lì un bel po’ di tempo, peccato per la classifica, ma lo rifarei tutti i giorni.

Ti eri prefissato anche un dato obiettivo a livello di classifica?

Mi sarebbe piaciuto stare nei primi 40 e c’era la possibilità anche andando tranquillo. Sono arrivato 47°, ma togliendo quel tempo sarei stato 39°/40°. Era alla portata, questo diciamo che era il secondo obiettivo. Non è arrivato, ma dopo tutto quello che è successo va benissimo così, poteva andare anche peggio. Sono arrivato, alla prossima Dakar sarà diverso.

Ti rivedremo al via l’anno prossimo?

No, non penso. Mancano i soldi, poi quest’anno mi sposo, quindi devo fare una cosa alla volta. Ma ho già in testa altro, come ad esempio il Touquet dell’anno prossimo, più qualche altra gara o allenamenti in giro. Mi prendo il 2024 per prepararmi bene per la corsa del 2025. In due anni ho fatto due Dakar, più i rally di Andalucia e Marocco, adesso bisogna ricominciare a mettere da parte. Ma ho già deciso che ci torno!

Ricordiamo, non sei pilota professionista. Che lavoro fai? E com’è nata la passione per le moto?

Lavoro per la ditta edile di famiglia, siamo in Africa. Vivo e lavoro in Nigeria, ma in Africa ci sono proprio cresciuto: prima in Ghana, poi sono andato per un po’ in Italia, infine sono tornato in Africa. Riguardo le moto, ci sono salito per la prima volta quando avevo due-tre anni. La mia famiglia ha sempre vissuto in Africa ed è appassionata di queste corse: ha visto la Dakar dal vivo, mia mamma è appassionata di rally, mio zio correva l’italiano cross… È sempre stata una cosa di famiglia. Io fino agli 11 anni ho fatto motocross regionale, cose varie, poi ho smesso per le gare di sci agonistico, ho dovuto scegliere. In Italia ci sono tornato a 10 anni e vivevamo praticamente in montagna. A 16 anni, quando ho preso la patente, ho deciso di tornare in moto. Ho cambiato da motocross a enduro, a 18 anni mi sono regalato un viaggio in Marocco in moto.

Com’è nata l’idea di partecipare alla Dakar?

Ho sempre avuto quel sogno, in casa a gennaio si parlava solo di quello. Dopo il viaggio in Marocco però ho deciso di andarci veramente. Tre anni fa ho trovato un amico qua in Nigeria che mi ha detto che voleva partecipare al Morocco Desert Challenge e mi ha chiesto se volevo andare con lui. Volevo fare un rally e non ci ero ancora riuscito, ho detto di sì. Poi è arrivato il Covid e l’hanno cancellato, avevo pensato all’Africa Eco Race ma hanno cancellato anche quella. Ho pensato quindi a quella vera, la Dakar. Ho fatto gare di enduro, anche se mai ad un certo livello, ma da lì è iniziato il percorso.

Come ha reagito la tua famiglia quando hai detto che volevi andare alla Dakar?

La maggior parte, pur supportandomi ed aiutandomi, non pensava neanche che ci arrivassi, che mi prendessero. Mio padre ad esempio solo quando ha visto il numero ufficiale ha detto “Ma allora ci vai veramente!” Mia mamma invece gasatissima, insisteva che dovevo andarci, mi ha dato una mano, è stata la prima a supportarmi. Gli altri invece pensavano più che fosse una cosa passeggera, che mi sarebbe passata dopo qualche rally. Ma è così: la Dakar, se non ci sei dentro, sembra così lontana che quasi non ci credi. Anche perché io non sono pilota professionista. In pochi quindi ci avevano creduto, finché non è arrivata la convocazione ufficiale. Alla fine ci si può arrivare, dipende come e cosa vuoi fare. Ma nel mio caso, in tre anni ho fatto quattro giorni di vacanza, le altre ferie erano tutte in moto: sacrifichi tanto, anche con chi ti sta intorno.

Come ti sei preparato per arrivare alla Dakar? Visto anche il periodo in cui hai iniziato a pensarci sul serio.

Devo dire che qui non c’è stato mai un vero lockdown, quindi per me era semplice andare ad allenarmi in moto. Andavo anche tanto in palestra con un preparatore, poi una volta in Italia, quando hanno allenato le restrizioni, sono riuscito a fare qualche ritiro col cross. Sono andato anche in Tunisia ed in Marocco, ho fatto uno stage in Spagna con Jordi Viladoms per il roadbook. Ho fatto l’Andalucia Rally, che non è andata bene visto che al terzo giorno ho rotto una caviglia. Sono andato al rally in Marocco, è andata abbastanza bene anche se ho rotto il motore il primo giorno, a 50 km dall’arrivo. Ero 4° di categoria dietro a Lucci… Il team poi mi ha detto di andare piano, di pensare solo ad arrivare in fondo, altrimenti addio Dakar. Ma l’abbiamo finita, mi sono qualificato, partito e finita dopo tre giorni. Mi sono detto subito che dovevo tornare. Quindi insomma mi alleno tanto in moto, qui mi va anche bene visto che ho la spiaggia. Quest’anno però c’erano tante rocce e non ci so tanto andare.

In generale, com’è stata la corsa di quest’anno per te? Confrontando magari anche quello che hai fatto nel 2022.

Sono caduto a 15 km dalla fine nel terzo giorno. Direi che le prime tre tappe del 2022, messe assieme, non erano neanche 20 km della prima tappa di questa Dakar. Parlandone anche con altri, mi hanno detto che tutta la gara dell’anno scorso era meno dura di quattro giorni di questa edizione. Già nel secondo giorno… O ti piacciono le rocce, o farci 400 km è dura. Io infatti ho faticato tanto. Anche l’organizzazione ci ha messo del suo: magari ti davano 160 km impegnativi non stop, senza un po’ di pianoro e quindi di “tregua” in mezzo. Nella seconda settimana invece, che tutti definivano durissima, mi sono divertito un sacco! Le dune erano una figata, tappe stupende, sabbia bellissima. A metà mattinata avevamo già finito. L’ultima tappa invece, di solito informale, era un po’ pericolosa: era “sapone”, cadevi in un attimo. Ma tolto questo è stato davvero bello, abbiamo trovato di tutto, anche se avrei preferito qualcosa di più “misto” come terreni. Ho sentito tanti dire che la Dakar è stata dura, ma dev’essere così, altrimenti vai a fare altro.

Questa è stata una Dakar segnata anche da freddo e pioggia. Come l’hai gestita?

Tiravi avanti, pensando solo ad un chilometro alla volta. Mentalmente, per far sì che fosse più ‘corta’, guardavo la mappa e mi dicevo “Ok, 100 km alla neutralizzazione” o quello che mancava. Non pensavo al fatto che avevo 900 km da fare, solo che mancavano 200 km, 100 km, 50 km… Mi dicevo “Dai ci siamo quasi, siamo quasi arrivati”. Si andava avanti sotto la pioggia, cantavo, pensavo ad altro, mettevo la musica, cercavo di scaldarmi. Non posso neanche dire che guardavo in giro perché con la pioggia non si vedeva a 20 metri. Cercavo comunque di tenermi impegnata la testa.

Com’eri attrezzato come vestiario?

La mattina per il trasferimento non c’erano problemi: giacca, pantaloni, moffole… Roba invernale. Il problema era la pioggia dopo: quando arrivavi alla partenza della speciale avevamo un saccone in cui mettevi dentro tutta la roba e la davi all’organizzazione. Il problema è che ce l’hanno portata una sola volta alla fine della speciale, verso la fine della prima settimana, verso Riyadh o Al Duwadimi. Quando abbiamo preso il grosso della pioggia erano già andati al bivacco, quindi nella prova speciale avevamo il gilet o una giacca con le tasche, la maglia da motocross, io avevo anche un k-way piccolino con me. Nel secondo trasferimento quindi ti trovavi con tutto questo per 5° C e la pioggia. Nella terza prova speciale, che hanno poi bloccato per il diluvio, mi hanno fermato all’ultimo checkpoint, quando mancavano circa 50 km. Lì ci hanno dato dei sacchi dell’immondizia da metterci sopra, per tenere coperta la pancia.

L’avventura e l’imprevisto fin da subito.

In certi momenti mi sono fatto tante domande sul perché ero lì, chi me l’aveva fatto fare! Ci sono stati momenti in cui dicevo alla moto di rompersi, così avevo il motivo per andare a casa. Con quei soldi ero alle Maldive! Ma alla fine ci sta, anche quello fa parte del fascino della Dakar. È la competizione più dura del mondo, quindi dev’essere così: dura, avventuriera, ricca di imprevisti. Ma so che tanti si sono lamentati dell’organizzazione: non sapevano come spostarsi, e il bivacco all’ultimo momento, e non c’era internet… Ragazzi, nessuno può prevedere il tempo! La Dakar è anche questo e ci si deve abituare. Parliamo di 5000 persone ed in questa situazione secondo me l’ha gestita bene. Abbiamo terminato la gara, abbiamo fatto quasi tutte le tappe, tranne una per le moto. Per fortuna, lì eravamo tutti contenti! Anche se alla fine ci siamo fatti 600 km per strada, non siamo rimasti a dormire. Ma tutto questo alla fine l’ha resa ancora più speciale, particolare, bella da finire! Anche se l’ho trovata molto più dura mentalmente che fisicamente.

Spiegaci meglio questo aspetto.

Fai da 10 a 14 ore in moto da solo. Trovi freddo, caldo, pioggia, pietra, sabbia… Magari hai un momento che ti stai divertendo un sacco e la moto ha un problema. Ti annoi perché stai facendo 300-500 km di trasferimento e ti sei ormai rotto, la testa inizia a vagare in giro. Passi attraverso talmente tante cose, le tue emozioni non sono tutte uguali: vai dall’eccitamento all’incazzatura alla rottura di scatole… È una tale altalena di emozioni che, se ti fai prendere troppo da una, soprattutto se negativa, influisce sulla tua guida, quindi rischi di cadere e farti male. Tenere poi la concentrazione per 10-15 giorni in moto, con la testa che a volte vaga… È stancante. Poi di colpo rischi e ti svegli di nuovo. Magari incontri un pianoro di 20 km, sei a 150 km/h, dai un’occhiata al panorama e di colpo becchi un sacco. Ci sono anche momenti in cui dici basta, voglio andare a casa, e momenti in cui è bellissimo. Controllare tutte le emozioni in quei giorni è stata la cosa più dura. Fisicamente alla fine ti devi allenare e l’adrenalina fa passare tante cose, mentalmente devi essere tu in controllo.

Non basta per farti dire no alla Dakar!

Quando tagli il traguardo capisci perché l’hai fatta. Un esempio: James Hillier s’è lussato la spalla al 5° giorno e per tutto il resto il discorso è stato “Ma perché sono venuto? La finisco e non voglio più sentirne parlare, non ci metterò più piede!” Arrivati al traguardo, va sul podio… E poi gli ho chiesto cosa voleva fare. “Quindi, ci torni?” “Ma sai che vorrei tornare…” Ci siamo sentiti in questi giorni e mi ha detto che ci sta pensando, non sa se l’anno prossimo ma vuole tornare. È peggio di una droga, ma lo capisci solo alla fine. C’era gente che, durante la gara, mi chiedeva perché: io rispondevo che non lo sapevo, che l’avrei detto quando arrivavamo a Dammam. La soddisfazione di averla finita è così grande che ripaga tutto.

Ti è successo magari qualcosa di particolare che vuoi raccontarci?

Gli altri forse avrebbero più storie, alcuni ne hanno viste… Ottavio ad esempio, che ha dovuto spegnere uno in fiamme. Ero dai medici, lui è entrato ed era completamente bianco in faccia: “Ho visto la cosa più brutta della mia vita, un uomo a fuoco e l’ho dovuto spegnere!” Una scena orribile, ha dovuto spegnerlo con la sabbia… Oppure quando ho incrociato Salvini alla tappa 2: si era legato addosso tutta la torretta di navigazione, andava in giro così!

Qualche altro episodio curioso più personale?

Forse quello che è successo nella 5^ tappa, la più bella per me: ci siamo trovati io e Cesare Zacchetti, lui era partito più avanti mentre io il giorno prima avevo avuto alcuni problemi. L’ho raggiunto, solo che io stavo andando, lui però si è attaccato dietro di me. Abbiamo visto poi un ragazzo cinese con la KOVE che andava sempre dritto: vedevi la traccia di tutti che magari giravano, seguendo il roadbook, mentre c’era questa linea completamente dritta di questo pilota. Poi magari me lo trovavo dietro, perché perdeva il waypoint e doveva ripartire, ri-andava dritto, e avanti così. Io e Cesare ci siamo fatti poi tutta la tappa insieme, bellissima: ci passavamo a vicenda, se uno cadeva ci aspettavamo… Quando siamo arrivati alla fine ci hanno dato salmone, in mezzo al deserto! Poi quel ragazzo che ho trainato.

Già non stavo bene perché mi ero fatto male prima alla caviglia e al ginocchio. Lui era lì che si sbracciava, era un prioritario e credo che tanti fossero passati senza aiutarlo. Mi ha chiesto se avevo benzina, non siamo riusciti a trasferirne, così ho deciso di trainarlo, ma non avevamo le cinghie. Abbiamo cercato di fermare tutti i piloti che passavano, finché non ne abbiamo trovate ed abbiamo legato le due moto. Il problema è che eravamo nella sabbia molle, quindi all’inizio abbiamo dovuto spingere, poi abbiamo dovuto ritrovare le tracce… Sono riuscito poi a portarlo fino alla fine, lui è andato mentre io sono caduto ancora, avevo l’acceleratore agganciato e ho perso il controllo. Ma anche il primo giorno, uno davanti a me ha preso una botta allucinante, non sapeva neanche dov’era. Non ha visto un dosso e si è lanciato, ha rotto tutto e non stava neanche in piedi. L’ho accompagnato per alcuni chilometri per capire se stava bene.

Una Dakar movimentata anche per te, dall’inizio alla fine.

Ma anche prima di partire per la Dakar! Ero ad allenarmi in Tunisia ed avevo rotto tutto il cambio. La moto però è arrivata in Italia quattro giorni prima di partire per Le Castellet e, tramite KTM Italia, abbiamo dovuto trovare in 24 ore un cambio che non si trovava. Mandare poi a Milano, smontare tutta la moto, cambiare tutto, risistemare il motore, risistemarla, caricarla e spedirla. La moto doveva partire giovedì, io fino a mercoledì mattina non sapevo se avevo il cambio o meno. Non sapevo cosa fare! Avevamo provato a vedere se riuscivamo a mandare la moto senza motore e poi mandarlo via aerea in Arabia Saudita. I miei avevano organizzato un furgone per il giorno prima, per provare a viaggiare di notte e caricare la moto a Le Castellet all’ultimo. Poi per fortuna è arrivato! Una volta lì però non volevano caricarmi la moto perché non avevo l’airbag, che era con me in Nigeria, pensando lo controllassero in Arabia Saudita.

Una storia infinita!

Per me gli inizi della Dakar sono sempre un problema. L’anno scorso ho preso il Covid e sono atterrato in Arabia solo il 31 dicembre alle cinque del mattino, l’1 si partiva. Fino alle sette del mattino non sapevo se sarei partito o meno, mi serviva l’ultimo test. L’anno scorso io, quest’anno la moto!

Ma è andata bene, l’hai finita e ti sei preso la tua medaglia.

Non lo realizzi subito, sto iniziando a capire adesso. Ce l’ho in casa, la guardo e mi dico che ho finito la Dakar! In quel momento è tutto così strano, frenetico, un casino. Alla fine ti scende tutta l’adrenalina e vuoi solo andare a dormire. Ma l’emozione più grande, più della medaglia, è stato tagliare il traguardo: nelle due dopo ero in lacrime, non riuscivo a fermarmi. Poi il bello è che vedi altri lati delle persone. Per esempio, Lucci non l’ho mai visto veramente felice: quel giorno lì all’arrivo mi abbracciava, sorrideva, rideva… Non l’avevo mai visto così. Capisci cosa c’è dietro la Dakar di ogni persona, cosa ha passato per arrivare lì, cosa che nessuno vede mai. All’arrivo è proprio un gruppo unico.

Com’è stato quest’anno il gruppo italiano?

Si è creato un legame fantastico, ho conosciuto persone magnifiche. Un gruppo di persone che si sono aiutate a vicenda, ad esempio Jader, Franco e Ottavio. Cesare mi ha aiutato tantissimo: veniva lì tutti i giorni, o alla mattina quando arrivava mi diceva di fare piano, di non esagerare… Durante la tappa insieme si è accorto che stavo male e mi diceva di rallentare. Un gruppo di amici che magari vedi una volta all’anno ma che conosci da tempo. Paolo l’ho visto in più gare, quando ci troviamo è come si fossimo amici da 20 anni. Si creano legami veramente stretti, bellissimi, sia tra italiani che con gli altri. Legami che non ho mai trovato in altre gare, nemmeno quando sciavo.

In chiusura, per la tua situazione fisica quali sono i prossimi passi?

Ho fatto le risonanze e le ho mandate al chirurgo, dobbiamo vedere bene per capire cosa fare. Nel frattempo sto facendo riabilitazione, ho cominciato ad andare in piscina ed a fare esercizi per tenere la massa muscolare del ginocchio sinistro, che ho perso un po’. Piscina e riabilitazione per collo e braccio, basta, visto che in moto non posso andare. Quando avremo i risultati finali si pianificherà l’anno. In teoria non dovrei operarmi, speriamo! Se così fosse, per fine febbraio-metà marzo posso tornare in moto. Se dovessi operarmi… Dipende dall’intervento, per un legamento crociato da ricostruire sono sempre 6-7 mesi. Bisogna vedere quanto è sfilacciato. Ma visto che non vado alla Dakar 2024 sono tranquillo, ho tempo per recuperare. Un po’ comunque mi preoccupa, non riesco a piegarlo… Vedremo.

Foto: Instagram-Lorenzo Fanottoli

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