7 Dicembre 2019

Superbike: Come eravamo diversi nel “lontano” 2012

Il 2012 è stato l'ultimo anno del Mondiale Superbike a gestione Flammini. Poi è cominciato il monopolio Dorna. Ecco com'eravamo...

Superbike

Nelle segrete stanze (FIM, Dorna, Eurosport Events) stanno trattando di come sarà la Superbike del futuro. Si va verso una fusione con l’Endurance (qui l’indiscrezione) per dare vita ad una sfida tecnica mai vista. Per adesso sono giochi politici e finanziari, destinati a ridisegnare lo scacchiere e il peso delle entità coinvolte. Cosa vedremo in pista dal 2021, o più in là, è avvolto nel mistero. Ad alcuni l’aria di cambiamento incute timore, ma la Superbike c’è abituata.

CAMBIAMENTO CONTINUO

Dal 1988 in qua, il Mondiale ha mutato tante volte proprietà e carattere. Tanto per dare l’idea, vi ripropongo un articolo che scrissi nel 2012 per il mensile Riders. Sono passati solo sette anni, eppure da allora sono cambiati il promoter, quasi tutti i piloti, il format. Ma soprattutto il posizionamento strategico. Il 2012 è stato l’ultima stagione dell’altro Mondiale: Superbike e MotoGP erano mondi lontani, e in perenne concorrenza. Di lì a poco sarebbe cominciato il monopolio Dorna, e i due campionati si sono inesorabilmente omologati. Proprio la situazione che la FIM vuole modificare. Fatevi questo (breve) salto all’indietro…

TUTTI SU PER ARIA

Superbike è tentare un sorpasso contando che quello davanti faccia spazio. Altrimenti sbaaaam, un colpo alla carena e via. Sul rettilineo successivo, allargare i gomiti per resistere e far capire chi è il più duro. All’arrivo niente drammi, perché c’è un’altra gara per pareggiare i conti.

Gli eroi del campionato alternativo si considerano da sempre diversi dai fighetti della MotoGP. Più duri e più puri, perché molti corrono per poco o nulla. Per loro rischiare la vita con la moto presa in prestito dal concessionario (o quasi) è normale.

Una volta, tra la Superbike e quelli di là, c’era l’Apartheid. Un pilota come Robert Phillis non aveva mai sperato in una chiamata dalla MotoGP. Dopo una vita trascorsa a correre sui polverosi circuiti australiani, la SBK per lui era già il top del top. Con la Kawasaki ufficiale disputò gare memorabili nei primi anni Novanta, vincendone solo quattro perché nelle sue stagioni migliori la Ducati di Doug Polen volava su un altro Pianeta.

La sera, davanti a parecchie lattine di birra, Rob amava raccontare della sua fattoria sperduta nell’outback e di quella volta che aveva fatto a pugni con un canguro troppo grande e troppo invadente. Nella 500, anche all’epoca, un personaggio così sarebbe passato per ridicolo, in Superbike era nel suo habitat naturale.

Due decenni dopo, i piloti Superbike si sentono ancora diversi e per la gente resta il campionato di quelli che guidano con il cuore stretto nel pugno destro, dei bravi ragazzi che hanno sorrisi per tutti e stanno ore a firmare cappellini e tette. Ma poi la sera, come davanti al bancone di un bar, i bravi ragazzi aprono l’anima e tirano fuori i sogni. E così scopri che la MotoGP è la terra promessa da attraversare a tutti i costi, un giorno o l’altro.

A parole stanno bene di qua, ma non ce n’è uno che non speri di arrivare di là. Vorrebbe tornarci perfino Max Biaggi che dalla MotoGP è stato messo fuori a calci. Lo avevano costretto a recitare la parte del cattivone, quello che doveva correre all’O.K. Corral e dopo una gragnuola di staccate cadere sotto i colpi del giustiziere Rossi, tra gli applausi del pubblico pagante.

Eppure, in Superbike Biaggi si è ricostruito mattone dopo mattone, abbassandosi perfino a correre per un team privato. È sceso sulla Terra, incassando colpi duri e bocconi amari. Adesso che ha vinto pure quest’altro Mondiale (unico italiano ad avercela fatta) sta pensando di tornare sulla Luna. A 41 anni non avrebbe più l’età, ma ora che i riflessi dello storico nemico non sono più gli stessi, il desiderio di rivalsa è più forte di tutto. Anche della ragione.

Eugene Laverty, il compagno di squadra di Max, conosce bene l’altro Mondiale. Ha corso nel 2007 e nel 2008 con la 250 giocandosela sempre con gli ultimi. Tempi duri che ricorda talmente bene da ripetere spesso: «Puoi spingere quanto vuoi, ma senza moto non vai da nessuna parte». In Superbike è entrato dalla porta principale, Ya- maha ufficiale e poi Aprilia, la più veloce di tutte. Ha vinto solo due gare e deve ancora dimostrare di essere più forte del vecchio leone Biaggi. Ma anche lui sta già pensando di tornare di là: «Anche con una CRT, perché sono convinto che con una bella Aprilia ART potrei mettermi dietro qualche MotoGP». Pur di esserci si farebbe bastare il meno peggio. Minuto, guance arrossate, modi gentili, Laverty sarebbe un personaggio tagliato su misura per l’algida MotoGP. 

Molto più di Cal Crutchlow che tra quelli della nuova generazione aveva l’indole più Superbike di tutti: occhi da matto alla Carl Fogarty, irruento in pista e lingua sciolta nel paddock. Sembrava fatto apposta per scaldare la passione dei tanti fan britannici, irruenti quanto lui. Invece, appena ha potuto, Cal è andato in MotoGP rinunciando alla possibilità di puntare al Mondiale alternativo. Velocissimo ma poco sensibile, il primo anno con la 800 non è riuscito a capirci granché, motivo per cui hanno iniziato a chiamarlo Cal di Neanderthal. Ma lui che è sempre andato in giro per il paddock in ciabatte, anche nelle giornate più fredde, non l’ha presa come un’offesa. Anzi.

Una volta la Superbike era una comunità che si identificava in luoghi di passaggio precisi: il pub del circuito la sera e la Clinica Mobile nei giorni di gara. Non importava essersi fatti male, dal dottore si andava per farsi un piatto di pasta o per avere l’aggiornamento in tempo reale sui pettegolezzi del paddock. Per un motivo imprecisato, se volevi sapere chi andava con chi, bastava passare dalla Clinica, dove non si curavano solo fratture ma anche frequenti patologie a trasmissione sessuale. Un tempo era quello il centro del villaggio, adesso molto meno. Perché oggi i top rider della SBK si portano dietro il fisioterapista personale. Per comodità, per vezzo, per privacy: se stai male e vai all’ospedale pubblico dopo cinque minuti lo sa il mondo, anche l’avversario a cui non vuoi far scoprire la tua debolezza.

La lista dei piloti Superbike che hanno saltato il fosso è lunga più o meno quanto l’albo d’oro del campionato. Dopo un po’ sono tornati a casa, con la testa gonfia e il morale sotto i tacchi. Il caso più emblematico è quello di Troy Corser. Da adolescente aveva lavorato in miniera e al porto, ma con la moto era diventato ricco e famoso in poco tempo. Scalò il Mondiale in due anni e decise di cambiare rotta abbagliato dai lustrini della 500. Durò mezza stagione perché la sua squadra fallì e restò a piedi.

Troy Bayliss invece è stato il pilota che meglio di tutti ha incarnato lo spirito SBK: spericolato, mutilato, leale, vincente. «Siamo tutti figli di Troy» scritto su uno striscione è diventato il manifesto di una fede. Ma neanche l’australiano volante è stato fedele a vita al campionato che lo ha reso grande. Quando è stato il momento della convenienza ha sotterrato l’amore.

Il giorno dopo la mitica sfida di Imola (2002), persa contro Colin Edwards davanti a centomila appassionati,Bayliss chiuse la porta in faccia alla Superbike che stava cadendo in disgrazia e si accomodò su una fiammante Ducati MotoGP. Di là è rimasto tre anni, scordandosi le code di tifosi in fila per farsi firmare l’autografo.

Quando tornò a casa, nel 2006, dettò una dichiarazione passata alla storia: «Finalmente sono di nuovo seduto su una Ducati Superbike, la mia poltrona di casa». Scordandosi che l’anno prima aveva guidato una Honda MotoGP e mai una volta che l’abbia definita uno sgabello. Quell’anno vinse il secondo titolo, quando lo richiamarono in MotoGP per fare la riserva: a Valencia li stese tutti nella sfida più incredibile dell’epoca moderna del motociclismo. Il pilota più SBK di tutti è stato l’unico a stracciare i fighetti. E da quella volta non ha più lasciato la comoda poltrona di casa.

Dicono che nel paddock della serie alternativa sia facile fare due chiacchere e bere una birra coi campioni. A volte accade, ma mica sempre. Non era certo un ragazzo alla mano Carl Fogarty, il fuoriclasse sbocciato tra i muri della NorthWest 200 e diventato famoso volando sui dossi del Tourist Trophy, spesso alla guida di moto improbabili. Un campionissimo di razza, colui che ancora oggi ha vinto più titoli e gare con le derivate dalla serie. Ma anche un ragazzo complicato dal carattere difficile. Parlargli quando le cose andavano così così era un’impresa, figuratevi chiedere l’autografo.

Cresciuto nella periferia malfamata di Blackburn (Lancashire, Inghilterra) Foggy era uno capace di appendere i meccanici al muro del box se le cose non andavano come voleva lui. In pista non era tenero con quelli che osavano sfidarlo. Ad Assen, nel 98, tentò di buttare fuori Piefrancesco Chili nel tratto più veloce. Non ci riuscì per un pelo, ma l’altro dalla rabbia si fece fuori da solo. Fogarty vinse e piombò sotto al podio con il pugno già spianato: sapeva di averla fatta grossa e che l’altro, rialzatosi quasi incolume, lo avrebbe aspettato al varco.

Quelli della SBK non sono piloti gentiluomini, ma piloti e basta. Raymond Roche, primo iridato con la Ducati nel 90, era il terrore delle compagnie di autonoleggio. Le auto che prendeva tornavano alla base coi segni della battaglia come gli Spitfire della Royal Air Force dopo il volo sui cieli nazisti. Ogni anno facevano una brutta fine, come quella volta in Canada quando Roche, battuto in pista, sfogò la rabbia tentando di compiere il giro della morte con una Cadillac.

Ciò che rende speciali i piloti non sono loro stessi ma il fatto di correre in un campionato che non ha molto in comune con la MotoGP: se ti lasciano il paddock aperto dalla mattina alla sera, e chiunque può entrare pagando un biglietto, ti abitui alla convivenza con il pubblico. Dimostrarsi docili e disponibili paga più che fare il sostenuto e non curarsi di nessuno. Sono contenti gli sponsor, i loro ospiti di riguardo e soprattutto l’organizzatore che incassa i biglietti: in SBK fare i simpatici è un ottimo affare. Nel recinto della MotoGP non ci sono spettatori paganti da blandire e le star si accontentano di una stretta di mano al chiuso di una saletta executive. Di là, se sei antipatico, magari passi per uno figo.

Max Biaggi ha attraversato le due sponde cambiando mentalità, abitudini e la natura stessa del suo personaggio. Nel 2007 arrivò in SBK portandosi dietro tutti i condizionamenti e le manie consolidate in 15 anni di Motomondiale. Nella MotoGP era uno che se la tirava alla grande e iniziare il nuovo cammino con la Suzuki di Francis Batta, uno dei pilastri del movimento SBK, fu un agguato del destino. La tenda della squadra era un porto di mare, Max non c’era mai. Quasi impossibile incontrarlo per il paddock, se non attimi prima o dopo l’entrata in pista. 

Biaggi si era portato dietro dalla MotoGP anche l’odio per i giornalisti. Li vedeva come il fumo negli occhi e faceva di tutto per rendere loro la vita difficile. In Superbike i piloti finiscono le prove, parlano dieci minuti coi meccanici e poi sono a disposizione. Max invece entrava nel box e non usciva più. Dopo un’ora imboccava un’uscita secondaria e lasciava i media senza il sospirato verbo. Una, due, tre volte. Poi i giornalisti si coalizzarono e smisero di andarlo a cercare. Così, quando Biaggi usciva dal box, non trovava nessuno.

E siccome non finire sui giornali è uno degli incubi peggiori, capì che non era conveniente. Da allora, lentamente, è diventato disponibile come altri. O quasi. Perfino lui, pilota da jet set, si è dovuto adeguare a usi e costumi di un mondiale dove i giornalisti che contano sono cinque o sei. Se non parla Biaggi, vanno a sentire qualcun altro. Punto.

Nella MotoGP? Ci sono duecento inviati, perlopiù divisi per fazioni: mettersi d’accordo è impossibile. Così i piloti ci giocano, costruiscono relazioni privilegiate e dividono la piazza. In SBK non funziona perché i decani della sala stampa sono nati insieme al campionato. Sanno che i piloti passano e il Mondiale resta. Sono riusciti a far diventare personaggi nomi mai sentiti, ma sono consapevoli che nessuno è indispensabile: il vero mito è la Superbike, non i suoi eroi. Un esempio? A metà anni Novanta Fogarty riusciva a portare 120mila spettatori al circuito di Brands Hatch (Inghilterra) e quelli della MotoGP commentavano: «Quando non ci sarà più lui, per la Superbike sarà la fine». Fogarty smise nel 2000 centrando un muretto a Phillip Island, in Australia. La gara dopo arrivò Bayliss e la leggenda non si è fermata. Ma non andate a dirlo a King Carl, potreste prendervi un pugno in faccia.

(Da Riders, maggio 2012. Questo articolo ha vinto il premio ENI come miglior pezzo sul motociclismo)

Lascia un commento

1 commento

  1. a.marrad_14537481 ha detto:

    Complimenti Paolo!
    Bellissimo.