1 Dicembre 2018

Superbike: Jonathan Rea “La paura? Io non ci penso”

Il fuoriclasse Superbike si racconta su La Gazzetta dello Sport. L'infanzia, i Mondiali, i figli. E la sfida impossibile a Marc Marquez

La Gazzetta dello Sport in edicola sabato 1 dicembre dedica una pagina intera a Jonathan Rea, il Cannibale che da quattro anni tiene in pugno il Mondiale Superbike. Il fuoriclasse Kawasaki è stato il più veloce anche nei test di settimana scorsa a Jerez (qui classifica e tempi). L’intervista è di Mario Salvini.

Quattro anni fa, nel Mondiale Superbike, Jonathan Rea si è presentato per la prima volta in sella a una Kawasaki. Da allora si sono corse 103 gare, 56 le ha vinte lui. Roba che Lewis Hamilton e Marc Marquez sfumano a tiranni minori. Tutto facilissimo, quindi. «Sembra. È soltanto che so portare la Kawasaki al limite».

Di Kawasaki ce ne sono due…

«Il pilota fa sempre la differenza, ma avere un team competente di cui hai piena fiducia è fondamentale. Io investo molto in me stesso, lavoro a contatto coi miei coach perché ho un’unica paura: perdere».

Più paura di perdere o di dare le cose per scontate?

«Più paura di perdere. Non do mai nulla per scontato. Vincere dà dipendenza. Conquistare titoli è bello, ma è solo la conseguenza. Essere in testa all’ultima curva è la più bella sensazione del mondo»

Da poco è uscito il suo libro: “Dream. Believe. Achieve”. Sogna, credici, ottieni…

«L’anno scorso la mia notorietà in Gran Bretagna è molto aumentata. Sono arrivato secondo allo sportivo dell’anno BBC, dietro a Mo Farah, davanti a Lewis Hamilton e Harry Kane. Sono stato invitato al compleanno della regina, sono diventato Ufficiale dell’Impero Britannico. Ho pensato: “Potrebbe essere il punto più alto della carriera, è ora di raccontarla”. Il titolo mi è venuto immediato: “Dream, believe, achieve” è il mio mantra da anni. Le parole con cui sono cresciuto».

Racconta che a scuola è stato vittima di bullismo…

«Sì. Forse perché venivo dalla campagna, e quando sono andato alla secondaria non avevo amici. Sono sempre stato molto bravo a scuola. Ho avuto paura, a volte, ma niente di grave».

E poi ci sono gli inizi in moto…

«Ho cominciato prima dei tre anni… A gareggiare a sei. Mio padre, John, correva al TT (all’isola di Man ha vinto nel 1989, n.d.r.). E mio nonno, John, con la nostra azienda di trasporto (Rea Distribution, n.d.r.) era lo sponsor principale di Joey Dunlop…».

E lei ci ha mai pensato, al TT?

«No. Mi piace, lo trovo divertente, ammiro i piloti che lo fanno. Ma è un tipo di competizione per la quale non ho un particolare interesse».

Nel libro c’è anche la morte…

«Racconto di Chris e Craig Jones (omonimi, non parenti, ndr). Erano miei amici, sono morti in pista. Craig nel 2008 in Supersport: quando è caduto, io ero primo, lui terzo. La settimana precedente eravamo stati in campeggio a Misano. Quando succedono cose così non ci vuoi credere, vorresti dimenticare subito. Ma non puoi, perché poi, al funerale, capisci che quei ragazzi non sono solo piloti: sono figli, fratelli, nipoti».

Un pilota pensa “non succederà mai a me”?

«Sì, è così. Sai che c’è il pericolo, ma in gara non ci pensi. Magari capita al giovedì, quando cammini in pista e ti dici: “Forse quel muro è un po’ troppo vicino… Ma quando sali in moto finisce tutto, se no non potrei fare il mio lavoro. Certo, ora che ho famiglia è più difficile».

A proposito, tutto cominciò nel giorno della prima vittoria, nel 2009 a Misano.

«Io ero in Honda, Tatia (Tatiana è australiana, ha 7 anni più di lui, n.d.r.) lavorava alla Kawasaki. Ci conoscevamo già, eravamo amici. Prima della gara le ho chiesto se potevamo essere più che amici. Lei ha detto di sì. E io ho vinto. Adesso abbiamo due bimbi (Jake di 5 anni, Tyler di 3, n.d.r.) e da agosto ci siamo trasferiti dall’Isola di Man in Irlanda del Nord».

A Templepatrick. La Brexit potrebbe riportare la frontiera…

«Non ne so abbastanza da comprendere tutti i veri significati di quella frontiera. Ricordo quando c’era un checkpoint armato. Spero che non lo rimettano. Sono cresciuto in campagna, dei disordini e delle bombe sentivo al telegiornale. Per me la religione erano le moto. Ci siamo tutti resi conto che nel mondo di religioni ce ne sono tante. Io, protestante, ho più amici cattolici che protestanti».

Il Belfast Telegraph ha scritto che lei in Irlanda del Nord è come George Best.

«Lui è un’icona. Io sono fortunato perché in Irlanda il motociclismo è popolare, più che in Inghilterra. Lo sport unisce, e io sono fiero di mettere insieme tutti come la nazionale di rugby (a differenza del calcio è unica per tutta l’Irlanda, n.d.r.)».

Ha avuto un’offerta dalla MotoGP per il 2019?

«Sì. Ma resto qui perché era meglio quella dalla Kawasaki. La moto e il team non erano tra i più competitivi»

Resta per il record? Ora ha 4 titoli come Carl Fogarty.

«No, non per le statistiche. Resto per me stesso».

Certo sarebbe bello vedere una sfida con Marc Marquez.

«Come posso sfidarlo se non ho… una moto incredibile? Lui è il migliore al mondo perché la MotoGP è il campionato top. I più bravi sono lì. Vorrei l’opportunità di misurarmi davvero con loro, ma non mi è arrivata».

 

Photo Credit: Kawasaki Racing Team WorldSBK

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