13 Febbraio 2018

Il personaggio: Pierfrancesco “Frankie” Chili, Shere Khan

E' stato uno dei piloti più amati della Superbike, anche senza vincere il titolo. E ha ancora molto da dire...

Pierfrancesco “Frankie” Chili è come un cavo dell’alta tensione. Scintille, crepitii, schiocchi. Mai una parola scontata, un ripensamento, un’indecisione; resta un campione che – ed è cosa di pochi – sa farsi rimpiangere dai fan. Lo abbiamo intervistato pensando a una breve conversazione sulle attuali condizioni della SBK, invece la chiacchierata si è presto trasformata in una lunga discussione fra appassionati. Forse è questo il segreto che ti inchioda alle parole di Chili: ti racconta una vita vissuta completamente full-throttle. Tu ti aspetti un ex pilota appagato e felice, invece ti ritrovi a contatto con Shere Khan, il “re tigre”, come il protagonista del romanzo di Kipling. Stessa affilata intelligenza, stessa grinta. Il Frankie-pensiero è chiaro, senza mezze tinte perché nelle corse, come nella vita, non servono. Chili eroe dei due mondi, protagonista nel Motomondiale e nella Superbike ci ha espresso come la pensa. Così, semplicemente, senza mandarle a dire.

Gli appassionati ti ricordano con un calore incredibile. Secondo te perché?

«Forse perché sono uno vero, diretto. La passione avvicina, io mi sono sempre sentito parte di una grande comunità che riuniva tifosi, paddock, addetti ai lavori.»

Segui ancora le gare?

« (ride) Mannaggia al FantaGP, che ha riacceso la passione! Sì, non ho smesso, anche se la mia vita va anche oltre all’ambiente. Sono felice delle cose che faccio, anche se ricevo tuttora molte richieste. È incredibile ricevere tante manifestazioni di affetto dai fan di tutto il mondo.»

In Inghilterra sei uno dei piloti più amati.

« Ti racconto un aneddoto che mi ha particolarmente colpito; a Brands Hatch faccio un giro di pista col direttore dell’autodromo, un ex pilota. L’automobile è cabriolet, marciamo lentamente. A bordo pista, a ogni curva, alcuni tifosi sventolavano bandiere italiane, altri ancora avevano insegne col #7. Un’emozione incredibile. Ti dirò che questo rappresenta un’extra motivazione. A Monza avevo l’abitudine di lanciare ogni volta un particolare del mio abbigliamento tecnico tra i tifosi. Era come una specie di gioco. Poi con l’aumentare della popolarità del campionato, di anno in anno è finita che sono rimasto, letteralmente, in mutande.»

Cosa ne pensi della Superbike di oggi ?

«Non è più il mio mondo, lo dico con rammarico. Senza cattiveria, ma l’atmosfera che si respirava ai tempi dei miei duelli con Fogarty, Slight, Edwards, è probabilmente irripetibile. Intendiamoci, io non ho soluzioni per la SBK di oggi, ma è indubbio che la formula vada ripensata. Quando correvo io la rivalità motomondiale-superbike faceva crescere entrambi i mondi, adesso c’è un’indubbio appiattimento. Ai miei tempi c’era rivalità, c’erano personaggi antagonisti, però erano personaggi veri, non costruiti dal marketing: la sberla che diedi a Fogarty se la ricordano tutti, ma in pochi sanno che io e Foggy ci sentiamo ancora, senza rancore. I regolamenti andrebbero ripensati, anche se non sta a me dire come. Di sicuro penso che un’unica giornata di gara, vissuta al massimo, regalerebbe ai fan il massimo delle prestazioni. Ti racconto una cosa: sai che ho due stabilimenti al mare, proprio a Misano. Bene, durante la tappa della SBK in riva all’Adriatico io non ho notato nessun incremento del lavoro, né delle presenze dovute al round italiano delle derivate di serie. In circuito a vedere la corsa c’era poca gente, questa è la verità. »

Credi che esista un problema di credibilità per le SBK ?

«Non direi. La Superbike è una categoria eccellente, voglio essere chiaro. Sbagliano quelli che dicono che i piloti delle derivate di serie nel motomondiale non farebbero bene. Sono sicuro che Rea sarebbe un gran pilota anche in MotoGP. Però restano mondi diversi. Pensa solo agli investimenti: gli interessi in gioco sono completamente differenti. Mi dispiace che la categoria venga mortificata, sacrificata a interessi superiori. Non essendoci più concorrenza tra i due campionati, anche l’interesse verso le derivate di serie è in calando.»

Come si fa a raccontare una carriera come la tua?

«Partendo dall’inizio. Ho cominciato seguendo mio zio nell’europeo velocità. Significava mettersi sul furgone e fare anche 6’000 chilometri in un week-end. Questo ti insegna tanto. Per esempio che una caduta può compromettere l’intero fine settimana. Durante tutta la mia carriera di pilota mi sono sempre sforzato comunque di dare il massimo; è anche una questione personale: non ho mai voluto scendere in pista pensando di non essere all’altezza. Sembra una sciocchezza ma non lo è, visto che ho sempre curato la mia preparazione fisica in modo scientifico. Nei primi anni ’90 ho sperimentato metodi di allenamento che allora erano innovativi, come Sport Vision. Ricordo che mi allenavo a “cadere” saltando un ostacolo di 2 metri di altezza, perché ritenevo che fosse importante questo tipo di training.»

Tante soddisfazioni, alcune delusioni, il bilancio è in attivo ?

«(ride) Certamente! Guarda le mie più grandi soddisfazioni le ho ottenuto gareggiando con mezzi che non valevano quelli ufficiali, ma c’era tanto del mio dentro quei risultati. Pensa alla mia esperienza in Suzuki nel 2000: dopo le prime tre gare non mi sembrava onesto nei confronti del team continuare. Ero persino convinto di essere io la causa della mancanza di risultati. Lo dissi a Battà, che mi rispose: “abbiamo un anno da fare assieme”. Poi alla terza gara il mio capotecnico stravolse la moto: arrivò la pole e una stagione straordinaria. In casa conservo i trofei conquistati sulle piste, sono quelli il premio migliore alla carriera. Prendi la famosa gara sotto l’acqua a Misano nel 1989: due mesi prima della corsa dissi che sarebbe stato pericoloso gareggiare in quelle condizioni al Santamonica, ma non venni ascoltato. Così quando i big si riunirono nella roulotte di Mamola per decidere di astenersi, io presi la mia decisione. Correre. Randy Mamola me l’ha giurata, ma gli altri capirono. Sorrido al pensiero delle “leggende”: non serve che te lo riconoscano gli altri, devi crederci tu per primo.»

Ti sei occupato anche di giovani talenti. Come vedi il futuro di questi ragazzi?

«Credo che le academies siano una palestra davvero importante, che ai miei tempi non esisteva, ma il problema è a monte. Chiediamoci perché piloti intelligenti come Faccani o Guevara mollano: non ce la fanno più economicamente. Famiglie che si “dissanguano” per far correre i figli senza certezza di carriera. Credo che andrebbe ripensato il sistema; già ai tempi in cui correvo sostenevo che concedere tutto il potere di contrattazione ai team avrebbe portato all’irrilevanza del pilota. Siamo giunti a questo punto: per le categorie minori occorrerebbe strutturare il sistema in modo che le squadre possano finanziarsi attraverso un’equa redistribuzione, un po’ come avviene per la MotoGP. Difficilmente credo che sia possibile per un giovane di talento, ma povero di mezzi, riuscire a farsi notare in questo modo.»

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