10 Agosto 2018

ESCLUSIVA Intervista a Lorenzo Lanzi: “Se vuoi vincere, prima impara a perdere”

La vita a tutto gas di un pilota di gran cuore. Che a 36 anni non si ferma e riparte da tester Moto2 con la MV Agusta.

Quando intervisti Lorenzo Lanzi non puoi certo immaginare che arrivi un punto nel quale ti chiedi se stai veramente parlando di moto, oppure al contrario stai conversando di Seneca, sulla necessità di non sprecare il tempo che ci è dato in questa vita; gli argomenti declinano in una saggezza antica – potresti arrivare persino a definirla “buonsenso” – che appare totalmente distante dall’immagine classica del racer. Se è vero che esistono i piloti con la “valigia”, allora Lorenzo Lanzi può essere considerato un pilota col “baule”: perché l’esperienza e la voglia di correre con tutti i mezzi a disposizione rappresentano un bagaglio personale insostituibile, costruito con tanta pazienza. Il romagnolo è un pilota di classe che forse ha raccolto meno di quanto meritasse, ma che ha saputo conquistare – ricambiando – il rispetto dei colleghi, primo tra tanti Troy Bayliss. Lanzi ha interpretato il motociclismo come una sorta di “mestiere delle armi”, in chiave racing: chiamato recentemente a Misano per effettuare un test sulla MV Agusta Moto2, ha deciso di parlarci di sé in una lunga intervista. Una vita a testa bassa. Tutta in carena.

Lorenzo Lanzi

Da dove parte la tua storia?

«Questa passione nasce dai miei genitori, e viene da lontano. Non riesco mai a chiamarlo lavoro, continuo a parlare del mestiere di pilota sempre con l’idea che sia prima di tutto un enorme privilegio. In famiglia abbiamo fatto un’infinità di sacrifici, però siamo sempre stati uniti. Pensa che ho quattro fratelli e tutti hanno dato una mano: nel complesso siamo riusciti a fare qualcosa di unico».

Cos’è che ti porta a sfidarti continuamente?

«Io cerco sempre di correre. Purtroppo non per colpa mia, ma per anni non ho trovato soluzioni ottimali nonostante il mio pensiero fosse rivolto al mondiale. Non mi è piaciuto lasciare così, soprattutto pensando che quel che mi ha ostacolato era dovuto al fatto di non avere un portafogli abbastanza gonfio o un passaporto straniero. Secondo me avevo ancora molto da dare: nelle poche occasioni che mi sono state concesse ho cercato di dimostrare il mio valore coi risultati, addirittura vincendo delle gare. Purtroppo o per fortuna la passione è ancora tanta e non è ancora tempo di smettere. Anche se ho 36 anni non mi va di terminare la carriera per problemi di sponsor, quindi ho deciso di cogliere tutte le opportunità. Ho corso e vinto con almeno dieci marche diverse, non mi spaventa niente!».

Nonostante le difficoltà, ti vediamo sempre in bagarre.

«Il campionato italiano (CIV) è cresciuto: in questo momento è a un ottimo livello. Anche la scelta del National Trophy è significativa: sono riconoscente a Dunlop Italia che mi ha permesso di avvicinarmi al Team FM Racing per correre in questa serie. Riusciamo ad essere protagonisti anche in un campionato competitivo dove non c’è il monogomma. Pensa che con la nostra struttura “piccola” diamo filo da torcere a strutture da mondiale. Cerchiamo di avere un approccio umile, ma con tanta sostanza. Corro solo e sempre per vincere, qualunque campionato affronti. Non è mai facile vincere o fare podi in nessuna serie, nessuno è lì per far numero: nel National Trophy siamo in 35, contro i 18 del CIV. Credimi, è battaglia vera».

Sei stato un talento emergente, poi hai saputo gestire anche la seconda fase della tua vita agonistica, quella più matura. Credi che la tendenza attuale, che vuole a tutti i costi la precocità agonistica, sia necessariamente un bene?

«Non credo che la precocità in moto sia sempre un vantaggio: i giovani piloti, secondo me, dovrebbero capire che per diventare grandi prima occorre imparare a perdere. Mi spiego: occorre un atteggiamento umile, saper ringraziare chi ti sta aiutando a crescere come sportivo. L’avversario va rispettato, niente è dovuto».

Ragazzini troppo spesso lasciati a se stessi oppure mal consigliati?

«Vedi, il problema è che ormai sulla pelle dei ragazzini c’è cresciuto un business. Quando correvo io, a parlare erano solo i risultati: se non combinavi qualcosa non andavi da nessuna parte. Non accedevi neppure alle finali dell’italiano, altro che pensare di fare il mondiale. Mancano le figure professionali serie, che tutelano gli interessi dei ragazzi: il segreto per un pilota giovane è quello di essere più tranquillo possibile, di sentire che la squadra crede in lui. Poi di essere consigliato per il meglio, sia a livello di sponsor che di giungla burocratica. Non bisognerebbe lasciare i ragazzi in balia dei soliti vecchi volponi. Un po’ quello che è mancato anche a me: la persona giusta».

Dovizioso, nella sua autobiografia “Asfalto”, afferma che un campione è colui che corre con quel che ha, che si fa bastare il mezzo di cui dispone. Che ne pensi?

«Penso che la mia storia mi sia sempre stata cucita addosso: ancora adesso, quando scendo in pista per fare qualche wild card, oppure una gara, non mi preoccupo di avere il mezzo migliore, oppure cerco colpe all’esterno. Piuttosto, provo a compensare con l’esperienza anche quelli che mi sembrano essere i limiti della moto. L’unica preoccupazione è dare gas».

Puoi parlarci della tua avventura in Moto2?

«È ancora troppo prematuro».

Cosa rappresenta per te una nuova sfida?

«Sempre grandi traguardi: raccolgo gli sforzi e i sacrifici di un’intera carriera. Per quel che mi riguarda voglio solo concentrarmi e dare il massimo. Non cerco mai la polemica, voglio solo esprimermi attraverso i risultati e i miei valori».

Perché credi che sia così difficile per un pilota mettersi in mostra?

«In MotoGP qualche manager di rilievo c’è, ma in Superbike no, e i giovani vengono mandati allo sbaraglio, senza tutele, senza consigli. Un pilota sa di cosa ha bisogno per emergere, ma a volte il team magari non è in grado di fornire tutto il supporto necessario. In questo modo i risultati non arrivano ed ecco che allora ti piovono addosso critiche che possono distruggere una carriera».

Cos’è che non ti ha permesso di vincere il mondiale?

«Non sono mai stato messo in condizione – per come la vedo io, s’intende – di esprimere il mio potenziale. Ho vinto più gare da privato che da ufficiale! Questo la dice lunga. Quello che ha rovinato la mia permanenza nel mondiale Superbike forse è stato proprio non poter disporre del pacchetto completo al momento giusto».

Segui le gare?

«Seguo tutti i campionati. Amo in particolare la Superbike, anche se fatico a riconoscerla adesso. E’ impossibile per un team privato fare un buon risultato, a differenza di quanto accade per esempio nel BSB. Il campionato inglese ha un’atmosfera bellissima: tutti amici fuori dalla pista, ma nessuno si risparmia quando inizia la gara. Il mondiale Superbike dovrebbe tornare ad essere il campionato degli indipendenti: sono stato a Misano, ed è stato spiacevole vedere così poca gente. Un altro problema, con la Superbike, è che sembra di vedere delle gare divise in due: una parte riguarda i piloti ufficiali, l’altra i privati. Questi ultimi si accontentano di arrivare tra i 20 e i 30” dal vincitore. C’è bisogno di cambiare, e alla svelta, perché la Superbike merita di più».

Hai saputo reinventarti cento volte. Quale sarà la prossima?

«Guarda io, ho molte persone che mi rispettano nell’ambiente, che hanno apprezzato quello che ho fatto e che tengono in considerazione quello che ancora sto facendo, ma se devo dirti davvero cosa mi piacerebbe fare in futuro allora voglio essere sincero: seguire qualche giovane pilota. Neppure per una questione di business, ma per aiutare un ragazzo a fare le scelte migliori. Poter consigliare, suggerire, orizzontare, in fondo è un modo per trasmettere l’esperienza. In ogni caso anche quando smetterò vorrei rimanere dentro l’ambiente, perché il motociclismo mi ha dato tanto. Come ti dicevo, non è mai stato solo “lavoro”: soprattutto tanta passione».

Come ci si reinventa ad ogni nuova stagione?

«Non smetto mai di pensare “racing”: voglio vincere, ma non mi fermo mai. Non intendo accontentarmi, ma penso anche al futuro. A 36 anni le stagioni si contano. Finché mi rendo conto di essere veloce, finché riesco a portare al limite qualsiasi moto guidi, finché mi alleno tutti i giorni come un atleta, allora il tempo di smettere non è ancora arrivato. Questo progetto Moto2, per esempio, mi sta elettrizzando, è un modo per reinventarsi una volta di più. Non devi ragionare da pilota quanto piuttosto da collaudatore. Non è la stessa cosa cercare il tempo a tutti i costi oppure valutare ogni cambiamento sulla moto. Il cronometro – sembra un paradosso!-, devi metterlo da parte!»

Qual è il rimpianto maggiore di Lorenzo Lanzi?

«Il rimpianto più grande è stato di non essere riuscito a diventare campione del mondo. Ci ho provato, ma forse non si sono verificate tutte le condizioni. Posso dirti però con orgoglio che non ho risparmiato l’impegno per centrare un risultato che, per una serie di circostanze, alla fine non ho potuto ottenere».

La soddisfazione più grande?

«La soddisfazione più grande è stata quella di salire su una moto a 5 anni. Se non fossi partito da lì, niente sarebbe arrivato. Ho potuto regalare ai miei genitori l’orgoglio del sogno mondiale, mi sono rialzato dopo brutti infortuni, ho potuto dedicare le vittorie a mio figlio. Queste sono le mie gratificazioni più importanti».

Temi i giudizi?

«Dico solo che viviamo troppo condizionati dal giudizio esterno: i piloti ormai sono sottoposti alle critiche non solo dei teams, ma anche degli sponsor, dei media e pure dei tifosi via social. Se non sei abbastanza forte rischi di finire massacrato. Siamo al paradosso che alcune squadre preferiscono pagare per avere un servizio marketing, ma magari non riconoscono un ingaggio al pilota e neppure gli cambiano le pastiglie dei freni!»

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