11 Giugno 2018

Andreas Pérez: al di là del bene e del male

Bisogna essere onesti: correre in moto è pericoloso, anzi pericolossimo. Le tragedie non sono fatalità, fanno parte del gioco che amiamo

C’è un pilota defunto di 14 anni. C’è uno sport che troppo spesso gonfia ogni notizia di retorica. Ci sono già troppe parole, per cui i lettori ci scuseranno se aggiungiamo anche le nostre. Veniamo da una settimana tragica: due vittime al TT, un giovanissimo morto a Barcellona. Forse è il caso di lasciare stare le frasi di circostanza e ammettere le cose come stanno, cioè che il motociclismo è uno sport pericoloso. Più di tanti altri, meno di altri ancora. Occorre precisare – per quanto poco piaccia sentirselo raccontare – che non si corre, a nessun livello, senza accettare il rischio.

PERICOLO E PAURA – Citiamo Michael Dunlop, 18 volte vittorioso al TT, la gara più folle e pericolosa: «Non prendo in considerazione la paura. La paura ce l’hai sempre a fianco. Sì, ho avuto paura in moto ma non mi ci soffermo. L’importante è continuare a spingere». Quando è stata l’ultima volta che ti sei spaventato? «Non molto tempo fa, in ogni caso abbastanza a lungo da non ricordarmelo». È piuttosto diverso che sentire raccontare la favola bella che uno muore facendo quello che ama fare. Semplicemente, se corri non ci pensi. Altrimenti in moto non ci vai.

PSICANALISI – Sigmund Freud sintetizzava bene le cose in un saggio del 1920: Al di là del principio di piacere. L’inventore della psicoanalisi sosteneva che il principio di piacere si ponesse al servizio delle pulsioni tragiche. Guardiamo le corse in moto perché sappiamo che c’è un gesto agonistico – che è prima di tutto vita – e contemporaneamente esiste una declinazione dell’ineluttabile, potenzialmente mortale. Eros e thanatos. Non l’ha inventata Freud, non l’hanno scoperta i piloti.  È così e basta, perché l’uomo è fatto in questa maniera. Negare che ci piaccia il rischio è raccontarci una menzogna, quasi fosse un modo rassicurante di assolverci rispetto a quello che ci porta ad amare gli autodromi. La verità è che ci entusiasmano le griglie di partenza riempite all’inverosimile, i circuiti veloci, le manovre al limite: se fossimo antichi romani, probabilmente affolleremmo arene e colossei per vedere corse di bighe con tiri a sei cavalli.

NON E’ FATALITA’ – I fattori di rischio, nessuno escluso, aumentano esponenzialmente il fascino. Domenica scorsa la griglia di partenza del CEV Moto3 a Barcellona vedeva 45 partenti; nel motomondiale lo scorso anno, nella stessa categoria, furono 32. Tanti, ma in fondo è relativo: in Superbike, dove corrono in pochi, Eugene Laverty e Leon Camier hanno rischiato grosso, investiti anche lor come Andreas, scampandola per poco. Chi pontifica chiamando in causa il destino cinico e baro è in malafede: i ragazzini delle Moto3 hanno alle spalle famiglie che li incoraggiano a rischiare, altro che storie. In caso contrario non sarebbero lì. Se fossimo tutti capaci di  guidare all’estremo le moto da corsa, che senso avrebbero le gare? Ancora: perché tanti genitori incentiverebbero la carriera dei ragazzi, se non accettassero consapevolmente il rischio connaturato? L’ipocrisia della mistica della tragica fatalità è una comoda attenuante; siccome si corre, allora è pericoloso. Nel momento stesso in cui si mettono le ruote in pista.

PREZZO – Ci riempiamo la bocca con i discorsi sui “tracciati sicuri” ma continuiamo a esaltare i circuiti dal “fascino ineguagliabile”, uno su tutti il Mugello. Chiedere a Michele Pirro cosa ne pensa. Stigmatizziamo tutti gli anni il TT – salvo poi mitizzarlo come luogo di follia e coraggio – e gli contrapponiamo invece i circuiti moderni, modelli di sicurezza. Barcellona sta lì a dimostrare che purtroppo i morti sono il sottoprodotto tragico di questo sport che amiamo. La tragedia di Andreas Pérez ricorda la scomparsa, in altri tempi, di Ivan Palazzese: per entrambi l’assurdo, l’imponderabile del mestiere di pilota. Per tutti gli altri il prezzo dello show.

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