25 Settembre 2018

MotoGP: Mariapia Ghedina «I piloti hanno una mente creativa»

Perchè la mente di un pilota ragiona come quella degli artisti? Come si risolvono crisi da stress come quelle di Lorenzo e Fenati? Risponde l'esperta

Il “caso Fenati” scoppiato a Misano e la rabbia di Jorge Lorenzo nei confronti di Marquez ad Aragon, hanno mostrato in modo chiaro che i piloti non sono macchine. In situazioni di particolare stress, anche il cervello più allenato può andare in tilt. Non è un mistero che tutti i piloti cerchino di limare gli ultimi centesimi ricorrendo a tutti gli strumenti necessari, senza tralasciare l’allenamento in condizioni limite. Ma qual’è lo spirito con cui i piloti scendono in pista? In Italia non sono molti i professionisti che si occupano della preparazione “mentale” degli atleti; ancora meno quelli che affrontano nello specifico il motorsport. Uno di questi specialisti è Mariapia Ghedina, psicologa dello sport, del benessere e forense (nella foto d’apertura).

LA SPECIALISTA – La dott.ssa Ghedina è ricercatrice in collaborazione con l’Università degli studi di Padova, ideatrice di una tecnica di rilassamento, speaker al TED, relatrice a numerosi convegni di psicologia ed è stata a sua volta un’atleta professionista – specialità snowboard – per oltre dieci anni impegnata ai massimi livelli. Mariapia si è dedicata con attenzione alle dinamiche dei piloti, studiandone le reazioni cliniche e analizzando le performance. In questa intervista esclusiva scopriamo che i piloti hanno una capacità di astrazione non comune e che l’aspetto motivazionale vale tanto quanto l’allenamento fisico, soprattutto quando viene applicato a discipline a forte stress, come il motorsport. Mariapia Ghedina ha il proprio studio a Cortina d’Ampezzo ed è inoltre disponibile a consulenze via Skype.

Di cosa si occupa esattamente la psicologia della sport, soprattutto quando affronta temi legati alle discipline individuali, come il motociclismo ?

Mariapia Ghedina

Mariapia Ghedina

«La psicologia dello sport è la disciplina scientifica che studia gli aspetti psicologici, psicofisiologici, sociali e pedagogici dello sport. Lo psicologo dello sport si occupa quindi di applicare tecniche scientifiche all’attività sportiva in questione. Quando parliamo di scientificità intendiamo l’utilizzo di metodi e tecniche la cui l’efficacia sia stata dimostrata. Quando questa condizione manca le azioni possono produrre effetti nulli o addirittura controproducenti.  Anche l’effetto placebo o nocebo determina dei piccoli cambiamenti e può arrivare al massimo al 30% di miglioramento delle prestazioni, invece l’approccio scientifico parte da un minimo del 80% e si parla infatti di efficacia scientifica. Applicare la psicologia dello sport a discipline individuali come il motociclismo significa utilizzare un approccio utile e mirato in base alle difficoltà da superare e ai traguardi da raggiungere».

Tu sei stata anche atleta e nei tuoi articoli emerge come la migliore combinazione per incrementare le performance sia un mix di strumenti scientifici ed esperienza diretta. Quanto ti sono serviti i trascorsi da atleta nel tuo lavoro?

«Sono stata atleta professionista per dieci anni e questo periodo mi ha arricchito prima di tutto come persona, permettendomi di girare il mondo, conoscere persone straordinarie e fare grandi esperienze. Già quando gareggiavo sentivo che la componente mentale aveva un’importanza maggiore rispetto a quella fisica. Oggi per me gli anni di agonismo sono un valore aggiunto nella professione di psicologa per assistere al meglio atleti, perché posso capirne le sensazioni e gli stati d’animo. Studio ed esperienza sono un connubio molto forte: aver vissuto una situazione la rende parte di te». 

Si sente parlare, spesso a sproposito di “motivazione” quando si analizza la prestazione di un pilota. Quanto è importante questo parametro per valutare la performance agonistica di un racer?

Mariapia Ghedina

Mariapia Ghedina

«Nel gergo comune “motivazione” racchiude una lunga serie di elementi che vanno presi in considerazione uno a uno quando si segue un atleta dal punto di vista psicofisico. Si lavora su tutti questi aspetti motivazionali, ma non solo, si punta al potenziamento della persona per quanto riguarda l’allenamento, la competizione, il sonno, la gestione del tempo e i rapporti interpersonali. Si può fare davvero molto per migliorare la performance sportiva».

In cosa consiste più precisamente seguire un atleta non solo psicologicamente, ma anche dal punto di vista psicofisico?

«Non possiamo pensare di dividere la mente dal corpo: il nostro corpo ci comunica le sensazioni, le emozioni, l’attivazione, il rilassamento e altro ancora. Tramite parametri psicofisiologici come la variabilità cardiaca, la frequenza respiratoria e la conduttanza cutanea è possibile comprendere in modo preciso e oggettivo il funzionamento di una persona. Più precisamente si possono conoscere, ad esempio, la capacità di adattamento allo stress o il livello di ansia. Io utilizzo frequentemente il biofeedback che consiste nell’applicazione di  appositi sensori che captano i segnali psicofisiologici e mostrano direttamente sul monitor un grafico con l’andamento. Oltre al colloquio clinico e al biofeedback ci sono anche molte tecniche utili per gli atleti, vanno però scelte in modo mirato in base alle caratteristiche individuali al fine di ottenere la massima efficacia in tempi brevi».

Come si lavora sulla “rimotivazione” ?

«Prima di tutto tenendo presente l’unicità della persona, le sue caratteristiche e le sue fragilità. I motivi per cui si ha un calo di motivazione possono essere svariati e alcune situazioni sono chiaramente più invalidanti di altre. Un atleta nel corso della sua carriera va inevitabilmente incontro a una serie di cali di motivazione: per una sconfitta, per la semplice stanchezza, per un infortunio, per la perdita di un amico, per la pressione degli allenatori o degli sponsor. La situazione andrebbe sempre analizzata nella sua completezza per poi agire nel modo più preciso e proficuo possibile».

Credi che nella testa di un pilota possa scattare il famoso “click” che gli consente di fare la differenza a un certo punto della stagione, oppure sono solo i risultati a garantire un extra-motivazione (oppure, nel caso della mancanza degli stessi, di un’involuzione negativa)?

Mariapia Ghedina

Mariapia Ghedina

«Chi è stato atleta sa che in una competizione tutto è possibile. A volte basta poco per far scattare quello che chiami “click” sia in senso positivo che negativo. Può essere sufficiente la rimozione di un freno mentale e allo stesso tempo un trauma può determinare un blocco. Gli atleti professionisti sono tendenzialmente persone resilienti, riescono ad affrontare grandi sfide e imparano in fretta a cadere e rialzarsi. Quanti però pur raggiungendo livelli molto alti finiscono per non sfruttare mai appieno le proprie potenzialità? Non è solo questione di sapere di potercela fare, altrimenti ci riuscirebbero tutti. I risultati positivi motivano, ammesso che non siano la costante: a quel punto potrebbe subentrare il timore di perdere ciò che si ha raggiunto con un conseguente calo della motivazione. Focalizzare l’attenzione sul risultato è molto peggio che focalizzarla sulla performance, eppure è un errore che fanno in molti. Solo se ci si focalizza sulla performance si riesce a vivere il presente attingendo al meglio alle proprie risorse; in caso contrario si vive nel futuro preoccupandosi per i risultati anziché godersi la sfida e gestire i rischi del momento. Essere sportivi professionisti è un’occasione unica nella vita e per me è una grande soddisfazione permettere ad alcuni atleti di far scattare questo “click” finché hanno la possibilità di vivere il loro grande sogno.»

Nei tuoi articoli hai parlato di attività cerebrale di un pilota simile a quella di un’artista. Puoi spiegarci il concetto?

«I piloti hanno una mente creativa, pensano per immagini rappresentando mentalmente la mappa del circuito. Il loro cervello assimilabile a quello degli artisti gli permette di formare legami tra elementi molto remoti e questa capacità di astrazione è fondamentale in una situazione complessa come quella della guida sportiva. Ciò che è affascinante è che rispetto a tanti altri atleti i piloti hanno una straordinaria capacità: riescono a prendere decisioni in modo molto rapido, e ad agire di conseguenza, nonostante siano costantemente bombardati da input esterni come il percorso e l’asfalto, oltre che interni come la tensione e il livello di concentrazione».

Ultimamente nel motociclismo vanno molto di moda i “coach”: degli osservatori tecnici e dei motivatori. Però il lavoro di uno psicologo dello sport è diverso, basandosi su criteri scientifici. Puoi raccontarci come si distingue?

«Uno psicologo è prima di tutto un professionista che ha una laurea triennale più una laurea magistrale ed è iscritto a un ordine, per cui deve rispettare aspetti deontologici come ad esempio il segreto professionale che altre figure non hanno. In più in molti casi per diventare psicologo dello sport intraprende altri anni di studio in psicoterapia, completando la propria formazione in circa 10 anni. Un coach può essere una persona che ha fatto semplicemente un corso di qualche mese. Non c’è paragone tra le competenze che hanno le due figure e l’efficacia scientifica del lavoro di uno psicologo rispetto a un coach.  Oltre al fatto di disporre di strumenti realmente efficaci per le prestazioni scientifiche, lo psicologo ha una preparazione che permette di aiutare l’atleta in modo profondo e concreto. Ricordiamoci sempre che ogni atleta è prima di tutto una persona e come tale ha bisogno di un professionista completo che si prenda cura della sua salute». 

Credi che la precocità agonistica nel motociclismo, con giovani atleti che – per varie ragioni – bruciano le tappe della carriera per arrivare in fretta in MotoGP rischino di compromettere un promettente futuro? Si può lavorare per impedire che l’assenza immediata di risultati possa rovinare tutto?

«No, non lo credo, penso però che gli allenatori, i genitori, e tutte le persone che seguono un giovane atleta abbiano più responsabilità di quanto potrebbero imaginare riguardo al raggiungimento degli obbiettivi e all’eventuale drop-out. Si può sicuramente lavorare per impedire che l’assenza immediata di risultati possa rovinare tutto, si tratta di un percorso individuale e fatto “su misura”. La cosa più sbagliata da fare è credere che ci sia un modo di “motivare” che vada bene per tutti».

Con la tua esperienza di atleta e di ricercatrice, credi che attraverso un percorso mirato e specifico si possa incrementare la prestazione in gara?

«Anni di ricerca scientifica dimostrano che è possibile incrementare la prestazione in gara attraverso un percorso mirato che ovviamente va fatto sistematicamente.  Nonostante gli atleti siano spesso in giro, per me è semplice prenderli in carico e seguirli, infatti dopo aver fatto un’accurata valutazione psicofisiologica, solitamente fissiamo i colloqui via Skype così risolviamo i problemi della distanza e risparmiamo tempo».

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